Cinque Giornate di Milano: i cimeli trezzesi del ’48

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La bandiera (foto Mario Donadoni)
Delle Cinque Giornate milanesi combattute nel 1848, Trezzo conserva la lampada del feldmaresciallo Radetzky e il tricolore che sventolava sul Martesana da Palazzo Medici.

La lucerna e la bandiera. Invecchiano a Trezzo due inattesi cimeli delle Cinque Giornate, combattute dai Milanesi per la libertà nel 1848, quando la minuscola città alza la testa contro il maiuscolo Impero Austriaco. Il vessillo «è un tricolore che sventolò su una barricata al ponte san Marco nelle gloriose cinque  giornate del ’48 milanese – racconta l’avvocato poeta Luigi Medici (1888-1965) nel periodico La Tradotta (giugno 1965) – Quante volte l’ho visto sventolare, questo vessillo, al balcone della mia vecchia casa». Affacciato sul Martesana, palazzo Medici ospita artisti così frequenti che il dialetto lo chiama «Cà di scultor» (casa degli scultori). L’edificio soffre i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale oltre cui Luigi, poeta e avvocato, ne trasloca gli arredi alla «Ciosetta Vincenzina»: la villeggiatura trezzese costruita dal 1923 su via Mazzini. Tra libri e tele, giunge così a Trezzo anche la bandiera quarantottesca in patriottica compagnia della lampada, sottratta allo scrittoio personale del feldmaresciallo Radetzky durante le Cinque Giornate.

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La lucerna di Radetzky (foto Mario Donadoni)

Questi è governatore del Lombardo-Veneto quando Milano si solleva, nel marzo 1848. I suoi gendarmi sfoggiano folti mustacchi che i nobili meneghini si radono per dissociarsi dal governo austriaco, abbandonando in sfregio i propri palchetti a teatro. Vienna intanto dispone un rincaro sul monopolio imperiale del tabacco, che la città smette di fumare: per le strade, solo i sodati ostentano il sigaro, provocando i Milanesi. Dal 18 marzo cinque giornate di lotta liberano la città. Al primo piano del civico numero 3 su via Brisa, Radetzky gode un sontuoso appartamento, la cui mobilia i cittadini mettono all’asta per sostenere la resistenza anti-austriaca. Tra le suppellettili, viene aggiudicata anche la lampada del feldmaresciallo, poi proprietà di Vincenzo Medici: padre di Luigi. «È una vaga lucerna di bronzo, alta tre palmi. Rappresenta una bella donna, ravvolta in un peplo classico, reggente sulla spalla destra una specie di anfora greca, dalla quale sbocciava allora la “cipolla” dell’olio, sostituita oggi da un’agile lampadina elettrica. – descrive il Medici in Una famiglia dell’Ottocento lombardo (Milano, 1936) – Intorno al basamento corre un fine bassorilievo, raffigurante le nove Muse danzanti in liete movenze». L’oggetto squisitamente neoclassico slancia la figura portafiaccola per i 70 cm, compiuti dalla sfera in vetro (20 cm) che aggiorna elettricamente l’accensione a stoppino.

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Luigi eredita l’oggetto dal padre Vincenzo che, con l’immancabile pipa di radica in bocca, amministra a Vaprio i beni del duca Lodovico Melzi d’Eril. Dalle macerie della casa milanese, dopo i bombardamenti, l’erede trasferisce la lampada a Trezzo: poggiata sul clavicembalo che mamma Teresa Crespi suona, ricordando quella volta che partecipò alla prima esecuzione del «Requiem» verdiano. Lo strumento è scomparso ma la lucerna arrotonda ancora una fioca luce tutto intorno. «Quella lampada a olio illuminava le fosche serate del rappresentante di Cecco Beppe, qui a Milano.. e ora illumina questa mia saletta pacifica. – ironizza Luigi nel 1936, tornando poi alle fattezze del bronzo – In quel cerchio scialbo di chiarore, quante cose avrà letto quella figurina di donna che tanto assomiglia all’Italia?».

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I libri che Medici consultava con frequente devozione affaticano ancora gli scaffali del suo studio trezzese; accanto disegni di asini, calamai donati da amici scrittori, appunti persino sui muri, schegge di guerra rimaste infitte nei mobili: più che con-fusione, fusione-con arti e culture disparate. «Age quod agis» è il motto sull’armadio; fa’ quanto stai facendo senza distrarti in altri pensieri. Qui Luigi rilegge a bassa voce le sue poesie in dialetto milanese, tra la lucerna di Radetzky e la bandiera che nel 1848 palpitava alla «Cà di scultor» durante le Cinque Giornate.

I cimeli delle Cinque Giornate: l’urgenza del restauro
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La lampada è custodita dall’erede Medici, amante più che semplice cittadina di Trezzo, dove passa il panno del ricordo sulla memoria dello zio Luigi: filosofo, giurista e poeta. Tralasciando Medicina, l’uomo si laurea in Legge a Pavia. Mentre indossa occhiali da avvocato, tra gli studi Porro e Foà, pubblica le prime liriche meneghine sotto pseudonimo di «Luisin Bongee». Ha per cliente persino Gabriele D’Annunzio. Il 4 novembre 1957 Medici dona la bandiera delle Cinque Giornate alla locale sede dell’Associazione Nazionale Reduci e Combattenti, retta allora da Alessandro Bassi.

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4 novembre 1957 – Il dono del tricolore quarantottesco

«Il vessillo è una commossa testimonianza. – spiega Riccardo Colombo, presidente delegato ANRC – Quella stoffa ci invita a vivere il noi anziché l’io, civicamente e non ciascuno nel proprio privato; secondo la collettiva responsabilità della nostra storia, che è poi la storia cui apparteniamo». Deposto in teca, il tricolore quarantottesco ha urgenza di un restauro, il cui preventivo è stimato a 4mila euro. Sfinita dal vento, la bandiera ci chiama alla generosità di quelle cinque giornate: quando, per indire l’insurrezione, i Milanesi suonano a martello una civica campana fino a creparne il bronzo. Palazzo Moriggia la espone ai visitatori. Il coraggio ormai è un pezzo da museo?

(Dall’Informatore Comunale di Trezzo, Anno 2015, numero 1, marzo)

Ringrazio degli scatti alla lucerna il fotografo Mario Donadoni

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