Donne del segno: streghe devote ed erboriste

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Sciamane, medicone, eredi del sapere erboristiche delle streghe: le “Donne del Segno” curavano i contadini diffidente dal ricorrere ai costosi dottori in camice.

Le donne del segno nella medicina contadina. Se ne ricorda chi ottant’anni fa frequentava l’asilo. Spesso le suore scortavano i bimbi dietro alle piccole morti dei loro coetanei fin dentro il cimitero trezzese. All’ingresso un vasto campo biancheggiava di angioletti e croci, da poco smantellati. La fame sedeva alle tavole dei contadini, il tifo e la pellagra erano scritti nelle loro carni: e molti bimbi finivano col morirne. Chi poteva difenderli? Diffidando di dottori troppo costosi, i trezzesi confidavano nelle «Donne del Segno», note in Brianza anche come «Madagune» e chiamate «Meisinoire» in Piemonte. Erano signore devote e perlopiù attempate, diffuse in tutto il Nord d’Italia contadino, che attribuiva loro un dono (il Segno appunto): quasi un fluido benefico al confine tra superstizione e medicina. Ai bimbi segnavano e guarivano i vermi (ossiuri o ascaridi, parassiti intestinali); dispensavano anche consigli agli adulti, cui cavavano dolori reumatici o ricollocavano distorsioni. Durante il Processo alle streghe di Cassano, celebrato nel 1520, le donne del segno inquisite vennero accusato di radunarsi in un bosco, suggere dalle narici il sangue dei neonati e usare spicchi d’aglio in riti sul camino: trasfigurazioni superstizione, queste, delle erbe spontanee raccolte per farne impiastri; degli aborti indotti a gravidanze indesiderate; dell’aglio impiegato come vermifugo equino.

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A Trezzo le Donne del Segno avevano ciascuna una propria prassi, sorretta però da una devozione comune: a San Rocco (patrono degli appestati) o alla Trinità. Il dialetto rende bene la loro costante preghiere nel verbo «spaternà». La guaritrice macinava «Pater Ave Gloria» in sequenze ternarie mentre segnava i vermi o benediva tre volte le lussazioni cui s’apprestava. Anche al malato prescriveva orazioni da ripetere tre volte al giorni per tre giorni. L’insistenza sul numero trinitario, la salda fede e l’esperienza cumulata lievitavano la fiducia riposta in queste Donne del segno. Sciamane quasi, che non esigevano compensi ma accettavano solo una presa di tabacco da fiuto, qualche uovo, del grano o pochi spicciolo.

Donne del segno, demoiatrica, streghe, medicina popolare, medicina naturale, medicina tradizionale, cura erboristiche, erboristeria, medicone, meisinoire, strie, woodo, storia della medicina, medicina contadinaLa vera distanza dalla medicina si consumava qui: la tecnica che le guaritrici padroneggiavano giovava solo in virtù del dono, cioè del fluido, ricevuto da un’altra Donna prossima alla tomba. Saper fare non bastava. La pratica era fecondata da qualcosa di impalpabile. La maestra agonizzante raccomandava alla prescelta la fede e l’onestà che le guadagnavano il dono di guarire alle donne del segno. Pretendere soldi dai pazienti, maltrattarli o sparlarne bastava a revocarlo. Perciò una Donna trezzese diseredò nel ‘900 almeno due sue seguaci, che pure proseguirono ad esercitare: mai avrebbe potuto investirle del «Segn». Da dove poi questo scaturisse è difficile precisarlo.

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Angela “Americana”

Due Medicone nate nell’800 trezzese, la «Bréca» e la «‘Mericana», asserivano di averlo ricevuto in Argentina: là dov’erano entrambe emigrate. Il soggiorno a La Plata valse loro i nuovi metodi che innestarono forse sulla secolare demoiatrica (medicina popolare) già fiorente in Alt’Italia. Rinfrescata da quei viaggi, la tradizione locale veniva però ancora custodita solo da donne, com’era per il remoto sapere delle streghe. A Trezzo l’unico guaritore era Giuseppe Colombo detto «Galét da Belvadé», anch’egli reduce delle Americhe, che si limitava a sistemare i «strambadür». Ossia le storte che benediva, bofonchiando tre «Pater Ave Gloria», e riassettava con le mani cosparse di «sciongia»: la sugna, grasso suino.

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La Breca in America con la famiglia

Natalina Monzani, nata a Cascina Chioso il 24 dicembre 1874, era la guaritrice trezzese più celebre. Meglio conosciuta come «Tita Bréca», deve tale soprannome non alla propria famiglia ma a quella della balia che la allattò: i «Brech» appunto. Era nata a Natale, nella cui notte i «setimì» (guaritori bergamaschi) iniziavano i discepoli all’arte loro. A quattro anni l’Adda le rapì il padre Giambattista, barcaiolo, all’imbocco del Naviglio Martesana. Per il nipote Giacinto Comotti non ne riaffiorò mai il corpo che, invece, la nipote Teresa Brambilla racconta venne ripescato mentre la vedova Rosa partecipava a un’Adorazione Eucaristica. In ogni caso, questa faccenda e la data di nascita conferivano alla Tita una singolarità acuita dal suo viaggio in Argentina. Il marito Gaetano Sironi se la portò a La Plata con le due figliole perché là i cugini già migrati gli assicuravano che il lavoro c’era. E molto.

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Nel Sud-America le donne del segno innestano il sapere erboristico tramandato dalle “streghe” sui rituali di matrice vudù

Ai coniugi Sironi, sbarcati nel 1910, il governo affidò un’estesa proprietà al limite con la Pampa. Crebbero così in un ranch le due figlie Angela e Teresa, che cavalcavano di buon mattino fino a scuola. Settimanale, al sabato, era invece la visita in città per «fa pruet»: provviste. Un giorno, di ritorno da La Plata, la famiglia fu sorpresa dal temporale che fulminò una delle poche case lungo la strada. Gaetano, Natalina e le due bambine vi soccorsero un’anziana argentina che si sdebitò lasciando alla donna il «Segn». Ora toccava a lei tramandarlo. Così racconta la nipote Pierangela Crippa, che aggiunge: «Nel 1922 la nonna e il nonno rimpatriarono perché lui temeva che le figliole in età da marito si sposassero in terra straniera, stabilendovisi».

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Così, del resto, capitò a una sorella della Tita. «Di medici non ce n’erano o erano troppo lontani e cari per chi faticava al ranch – precisa un più prosaico Giacinto Comotti – Perciò mia nonna apprese da un argentino come sistemare da sé storte e lussazioni». Tornati a Trezzo, i Sironi costruirono in via dei Mille la casa che alloggiò anche Angela, sposata a Comotti Pietro detto «Dör» e madre di Giacinto. «Papà morì nel novembre 1936 – ricorda commosso – e per pagargli le esequie vendemmo il maiale che ci avrebbe dovuto sfamare quell’inverno. A farlo fu invece mia nonna, la Tita Bréca, col poco cibo o denaro che i suoi pazienti le lasciavano». Madri apprensive le portavano bimbi inappetenti, inquieti, insonni; in un aggettivo, «gnech». Come altre donne del segno, lei li guardava e diagnosticava ossiuriasi o ascaridiosi: l’affezione, un tempo diffusa, da parassiti intestinali che a differenza della tenia solitaria fondano vere colonie di vermi. E così si chiama il male sia in trezzese («verman») sia in bergamasco («’erem»).

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La Breca anziana con la figlia e i nipoti

La Bréca li debellava prescrivendo zucchero bagnato da un petrolio trasparente e raffinato, che le provvedevano in bottigliette. Avvolgeva il composto nel giornale e consegnava lo «scartusèll» alle mamme perché ne somministrassero al bimbo tre quotidiani cucchiaini, pregando, per altrettanti giorni. Benché sciagurato, il rimedio era propinato ancora vent’anni fa. La Bréca sapeva anche massaggiare le lussazioni o alleviare i reumatismi, incendiando un batuffolo di cotone («bumbàs») imbevuto d’alcool («spirit») nel bicchiere che poi poggiava sulla zona dolorante. Bruciato l’ossigeno, il recipiente faceva presa ermetica. La Donna rassicurava gli acciaccati, pregava sinceramente per loro e ne rinverdiva le speranza senza reclamare quei soldi di cui pure aveva bisogno. Perciò il dott. Pampuri la tollerava e persino la consigliava in taluni casi mentre il dott. Testa le irruppe in casa, un dì, condannandola ad alta voce.

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Quando Natalina morì, nel 1956, la figlia Teresa (anch’ella detta Bréca) era al suo capezzale per raccoglierne il dono. Proseguì nelle pratiche materne, lei che aveva intrapreso studi infermieristici, ma indirizzava al medico chi le esibisse una frattura. Non poteva fare altro. Prescriveva di frizionare con grappa i reumatismi; oppure di poggiare riso cotto sulle articolazione infiammate e ricotta sul collo, per le tonsilliti. Suggeriva anche i dubbiosi, irrobustiva matrimoni pericolanti: e una volta il fruttivendolo di Pontirolo (Bg), da lei ben consigliato, le portò grate ceste di frutta. Teresa morì in poche ore, una mattina; il che le precluse di trasmettere il Segno all’amica di via Milazzo (zona «Lasarètt») cui l’aveva annunciato. A tutti raccomandò un quadro raffigurante la Trinità che tanto aveva invocato.

12 Responses

  1. Mario Chignoli

    Molto interessante. Avendo qualche anno in più ho vissuto, nei primo dopoguerra, il periodo in cui operavano ancora le donne col segno; ce n’era una anche a Vaprio che aggiustava le ossa, slogature in particolare (la Ramera) poi ne conoscevo uno a Melzo e una a Clusone, nei primi anni sessanta ho portato diverse volte da questa mia zia. Vi devo dire però che in una di queste visite, la dona dal segn, le disse che suo marito non avrebbe avuto vita lunga effettivamente l’anno seguente morì all’età di 56 anni. Molto interessante la tua descrizione Cristian

    • Cristian Bonomi

      Grazie, Mario. Sapevo di medicone “colleghe” anche nei paesi vicini ma mi mancavano i nomi. Certo queste guaritrici vantavano una traduzione di medicina popolare, tramandata di madre in figlia. Non si può liquidare il loro sapere come superstizioso: avevano ampi margini di competenza erboristica e, forse, psicologica. Mia nonna portò persino me da una di loro, quand’ero bimbo.

  2. Ciao Cristian..io sono una di quelle mamme che trent’anni fa portava il bambino alla Brèca per i “verman”… Mirco avrà avuto 10 mesi dietro consiglio della sua balia di Via Milazzo…sono uscita di corsa dall’ufficio a Milano e verso sera sono andata da questa
    signora del segno presso la sua abitazione in Via Dei Mille ….inutile dirti che Mirco poi è stato benissimo …e comunque ho sempre curato le sue tonsilliti con la ricotta , dietro consiglio di non so più quale amica …ed è riuscito a conservarsele intatte!!! Quindi i vecchi metodi hanno ancora il loro valore!! Ciao Cristian e grazie per queste bellissime storie …sembra di stare davanti ad un camino acceso con un nonno seduto su una sedia che ti racconta le vecchie storie di un tempo !!

    • Cristian Bonomi

      Grazie Lena! Io pure sono stato curato dalla “Breca”, quand’ero bimbo. La figura della “medicona” resiste ancora in alcuni centri minori ma si tratta di un fenomeno tutt’altro che locale: la demoiatrica, medicina erboristica del popolo, riusciva più efficace persino dei dottori; almeno fino all’Ottocento, il secolo di svolta per la scienza medica.

  3. Da piccolo ogni tanto mi slogavo le caviglie , mi ricordo una volta mio papà mi porto’ dalla Breca ,(in via dei mille credo).
    Non riuscivo ad appoggiare il piede a terra.
    Recito’ un po’ di formule, mi prese il piede e senza farmi sentire solo me lo mosse , uscì dalla case camminando.
    Mi disse di recitare un po’ di preghiere ed a mio padre di fami fare i pediluvi con acqua calda e grappa.
    Il pediluvio lo feci solo con l’acqua calda, la grappa venne usata per altri scopi da mio papà.

    • Cristian Bonomi

      Anche papà sapeva il fatto suo! Grazie, Davide: ricordi di che anni si trattava? La Breca bagnò la caviglia o ci disegno sopra un segno di croce?

  4. beatrice rugai

    Grazie Cristian per le tue minuziose ed interessanti ricerche sul tema.Sarebbe di poter averle ancora oggi fra noi….Chissa …Magari….

    • Cristian Bonomi

      Grazie a te, Beatrice! Credo ci sia ancora una “donna del segno” che legge i vermi a Capriate.

  5. Per la “Mericana”, la storia é un po’ diversa, soprattutto nel finale, te lo posso assicurare. Chi ti ha raccontato la storia, non la sapeva tutta, o peggio, la sapeva male

    • Cristian Bonomi

      Buonasera Guido! Sono lieto di trovare una testimonianza in più da incrociare a quelle raccolte, anche per correggerle: se vuoi, scrivimi a ioprimadime@gmail.com e provvedo ad aggiornare i due articoli col tuo contributo. Grazie, c.

  6. complimenti cristian,mi ai fatto rivedere la foto della mia bisnonna mericana purtroppo io ero piccolo e non me la ricordo
    molto bene,ma ti assicuro che i vermi me li a segnati tante volte,grazie e ciao

    • Cristian Bonomi

      Grazie, Valerio! A me pure segnarono i vermi qui a Trezzo, da bimbo. Se hai altre foto o ricordi di nonna, li aggiungo volentieri all’articolo. Un saluto, c.

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