Pesca miracolosa e storie fluenti lungo l’Adda

Dell’Adda, storie correnti del fiume che divideva il Ducato milanese dalla Repubblica Veneta: contrabbando e battute di pesca.
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Elisa e Franco Carozzi, Trezzo

Franco Carozzi (1928-2011) ricordava ogni pesca come evangelica lungo l’Adda di Trezzo: descriveva con le ruvide mani fiocine, reti, durlindane e bilance ormai invisibili. La sua famiglia le ha maneggiate per oltre un secolo. Conosceva ogni palmo di fiume. Tagliava la legna sotto la luna calante perché non faccesse tarli («cariöo») o fumo. Anche se l’Adda scocca la sua freccia alla città, i Carozzi obbediscono  al tempo circolare dei campi. A San Benedetto in Portesana, la cascina che abitano, seminare si dice ancora «sulnà». Un tempo i contadini di qui traversavano l’Adda per assistere alla funzione domenicale nella più vicina parrocchia di Cerro. Diciassette pellegrini trezzesi affrontarono nel 1792 quella stessa traversata ma la loro barca s’inabissò. Un solo passeggero scampò al naufragio.

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Fiocine a cascina San Benedetto
La miracolosa pesca sull’Adda

Alborelle, persici e barbi. Ma anche triotti («truiott»), vaironi, lucci («losc»), pighi, savette, tinche, trote fario o mormorate, cavedani («cavesài»). Fin dalla Pace di Lodi (1545) il diritto di pescagione sul fiume era appannaggio del Ducato di Milano a discapito della Repubblica Veneta, il cui dominio finiva sulla sponda opposta. Pure, i Bergamaschi indicevano clandestine battute di pesca; di notte. Spesso gettavano alla fauna ittica pastoni di bacca e fiele, che gonfiavano la vescica natatoria del pescato salito così a galla.

La famiglia Carozzi, da oltre un secolo contadina e pescatrice a cascina San Benedetto, rammenta l’aurea epoca della pesca fluviale. Nella prima metà del ‘900 l’Adda era affittata ai Baggioli tra il lavatoio e cascina Belvedere. Qui abitavano i ComottiChinài») che avevano in concessione il fiume fino al «Funtanìn», sorgente bergamasca e confine delle acque che i Carozzi affittavano invece da lì alla località «Rundanéra». Proseguendo, l’Adda era di Villa «Primìn».

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Franco Carozzi

Chiunque poteva pescare con una canna, tre pezzi di bambù infilati e drizzati col fuoco, la cui montatura si chiamava «sadagnìn». Ma solo queste famiglie gettavano le reti nelle correnti affidate loro. Lo facevano da battelli in legno che Angelo Moioli detto «strafói» (balbuziente) fu il primo a realizzare in ferro. «Ritiravamo le reti all’altezza di un casotto prima della nostra cascina – spiegava Franco Carozzi  – allora s’intravedeva nella viva corrente del fiume la lastra di un lavatoio sommerso, su cui proliferavano le alga e tra queste i pesci. Tardare nel ritrarre le maglie significava impigliarle sul fondale che si faceva poi più accidentato». Annuisce la sorella Elisa (1932), che rammenta di quando le reti restituirono una trota tale che, nel pesarla, si temette contenesse un cadavere. L’enorme pesce fu acquistato dai Redaelli, gestori dell’Albergo Trezzo.

Un altro tratto pescoso era al limite con la proprietà Villa, dove l’Adda curva, dirigendo i pesci sulla sponda milanese. Qui un ceppo affiora, provocando un gorgo («rosa») che rispedisce tinche e soprattutto anguille frastornate nelle acque morte del bergamasco. I Carozzi ne arpionarono a migliaia con le fiocine («flosni») di cui ci mostrano due esemplari risalenti agli Anni Trenta. Dopo averle temprate vi si applicava una pertica in bambù che, fallito il lancio, affiorava qualche centimetro sull’acqua. Si poteva così recuperarle senza difficoltà. Sotto la luna piena si pescava con una retina svolta attorno alle alghe che, colpite coi remi, consegnavano la loro ittica popolazione. I pesci in frega si sorprendevano con la bilancia, il «quadraa»: un quadrato appunto di rete, assicurato a due stecche incrociate, che misurava 1,5 m di lato.

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Lampada ad acetilene

Diffusa e difficile era la pesca col laccio, una sorta di cappio in rame ritratto per impiccare il pesce prima che guizzasse via. Le battute erano sempre notturne e, approfittandone, qualcuno gettava persino delle bombe a fiume per fare incetta di pesci intontiti. Meno cruento era l’impiego di lampade ad acetilene («centiléna»): il carburo bagnato emetteva fiammate capaci di abbagliare la riva. Bastava allungare le mani per raccogliere la fauna abbacinata dei fondali. «Soprattutto durante la “passata delle anguille” l’attività c’impegnava parecchio – spiega Carozzi “Lisèta”, classe 1932 – mio fratello ed io caricavamo le bici di pesce e lo vendevamo di cascina in cascina, a Busnago, alla Clausura di Capriate, alle pescherie o persino agli ambulanti del mercato». I due fratelli pescatori si rubano le parole da bocca. Una domenica Franco si scordò persino della fidanzata che lo aspettava, preso com’era da una pesca propizia. «L’era propi ‘n divertiment», conclude. Non una fatica.

Eppure, scriveva Cesare Cantù: «Povera la vita del pescatore! La sua sussistenza dipende dal vento e dal tempo, senza che mai proveda a riporre un soldo allorché la fortuna gli dà di guadagnarne due. Al più delle volte pagherà il debito che avrà contratto col fornajo, col pizzicagnolo, coll’oste. Per molti giorni di seguito neppure può uscire colla barca, tempestando: in altri non coglie tampoco un pesciolino.. deve un terzo a chi gli prestò la barca, un terzo a chi gli prestò le reti». Più che parole, echi della pesca storica, che impiegava persino paste illecite per avvelenare i pesci.

2 Responses

  1. Giancarla Passoni

    Molto interessante. Tra l’altro leggo che uno dei trezzesi annegati nel 1792 si chiamava Luigi Colombo detto ghirlone.
    Mio nonno Colombo Emilio (nato nel 1899) era noto come ghirlum. Chissa se era un suo antenato….mi piacerebbe davvero saperlo ma immagino sarà impossibile e comunque mi piace credere che già nel 1792 noi c’eravamo!

    • Cristian Bonomi

      Ciao Giancarla! E’ molto probabile. A partire dal Medioevo, lo Spirito Santo viene eletto patrono di vari enti caritatevoli: l’Ospedale Maggiore di Milano, tra gli altri. Per simbolo avevo il Colombo che assegnava in cognome ai trovatelli della ruota in Santa Caterina, allevati giusto dall’ospedale. Il cognome divenne così frequente che obbligò l’adozione particolare di soprannomi per distinguere i diversi clan Colombo. Solo dall’epoca napoleonica, ogni trovatello ebbe un cognome appositamente inventato, assonante con la prima lettera del nome: Ferdinando Fodera, Angelo Angelici, Giuseppe Giuzzi (per citare casi trezzesi, che ho studiato). Se ne hai tempo, ti consiglio di chiedere in anagrafe la copia conforme dell’atto di nascita per tuo nonno, o del bisnonno. Proseguendo la ricerca in chiesa, a Trezzo, troveresti sicuramente il soprannome e l’eventuale parentela. Ricordo che i prevosti avevano questa cura. Infine, all’archivio di piazzale Dateo è conservato dettaglio di molti orfani battezzati col cognome Colombo: dipende dall’epoca. Ci sono persino ninnoli, immaginette lasciati nel fagotto del bimbo. Potresti trovare qualcosa anche là. Ma bisogna prima capire chi è il capostipite dei Colombo “Ghirlum”.

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