Tra Provvidenza e intraprendenza, i lebbrosi di Padre Rocco Perego presso la missione di Loilem in Birmania, l’odierno Myanmar. Il sacerdote trascorse cinquant’anni tra gli Hanseniani, curandone le piaghe e lo stigma sociale.
“Ruchìn”, l’infanzia di quella vita votata ai lebbrosi
«E’ morto». Poi, accostando un fiammifero acceso alle palpebre di Rocco, un lieve sussulto ne ritrattò il dramma: «Se anche guarirà, sarà una povera creatura muta e scema» rettificò il dottore. La malattia più crudele è quella di un bimbo. Rocco aveva sei anni e non una speranza: perse i sensi in tre giorni, e in tre mesi non accennò a riacquistarli. Era nato a Trezzo sull’Adda (MI) il 29 maggio 1903, in via Brianza (oggi via Dante). Anche papà Carlo Perego (detto “Palatèe”) e mamma Rosa Boffetti s’erano ormai rassegnati al peggio. Avevano già perso il primogenito Celestino, annegato nell’Adda davanti alla centrale idroelettrica “Crespi” (oggi “Taccani”) nel 1909: venne l’inverno, vennero i sub ma il suo cadavere non fu mai rinvenuto.
Quella di Rocco era insomma era una tragedia, anzi peggio, l’attesa di una tragedia già segnata e già vissuta: la perdita di un figlio. Colui che perde un genitore è orfano ma non ci sono parole per chiamare il padre o la madre che perda un figlio. Eppure, Rosa sorprese un giorno il suo Ruchìn aggrappato al tavolino, da cui l’immagine di un Cristo vegliava. «Non vedi qui Gesù che mi chiama? – spiega placidamente alla mamma – Stavo giocando con tanti ragazzi e Gesù ha chiamato me, solo me, ed io sono venuto qui da Lui». Dal letto di Rocco al tavolino non c’erano che pochi metri; fu una passeggiata breve ma salutare perché, di lì a un mese, quel bimbo guarito era tutto tranne che una creatura muta e scema. Al piccolo “miracolato” imposero uno foto con addosso un piccolo saio.
Malato da piccolo, da grande Rocco assisterà i lebbrosi di Loilem
Il bisnonno Perego Ferdinando (1807-1869) era solo un ciabattino nativo di Mezzago, ma era un ciabattino intraprendente: e, oltre alla bottega, i suoi discendenti trezzesi ne ereditarono proprio l’intraprendenza. Tanto da poter garantire a Rocco un agiato futuro da “modesto” proprietario sì, di una calzoleria: ma anche di un’avviata tabaccheria, una sartoria, una salumeria, un mulino, un magazzino e un’osteria.
Giovanissimo, Rocco intende abbracciare il sacerdozio regolare. Fu questa vocazione a portarlo dal collegio di Celana a quello di Porlezza, passando per il Seminario Arcivescovile di San Pietro Martire. Qui, però, le conferenze tenute da alcuni Padri instillarono in lui l’ideale missionario. Dubbi e timori non mancarono di smorzare gli entusiasmi del giovane trezzese: il missionario officia tra i pericoli del mondo. in una terra ignota, in una lingua sconosciuta egli vuole istruire popoli che non conosce su un Dio che quelli ignorano; e ci riesce.
A vent’anni Rocco si risolse di lasciare a Porlezza le proprie esitazioni; e il 21 novembre 1923 (a Monza), ottenuto il consenso dei genitori, entrò nel PIME: Pontificio Istituto delle Missioni Estere (1). Con lui lo fecero anche altri due giovani trezzesi: Padre Alessandro Bosco e Padre Raffaele Comotti, prima del ben più tristemente noto Padre Angelo Maggioni (2). Quattro coraggiosi missionari, questi, cresciuti all’ex-oratorio paesano “Villa Quiete”: alla “Dutrinèta” di mons. Giuseppe Grisetti. Dicono che, con quest’ultimo, l’irrequieto seminarista Rocco giunse persino a bisticciare.
Proseguì i propri studi presso la casa di S. Ilario Ligure, dove divenne Prefetto ed ebbe alunno Padre Osvaldo Filippazzi, che così rievoca Padre Rocco: «Era molto cordiale con noi alunni, ma voleva lo studio e l’osservazione delle regole a puntino. Una volta mi castigò per una mancanza che poteva essere un puntiglio di superbia: queste cose non le voleva assolutamente». Se osservanza e umiltà agli altri le insegnava, da sé le pretendeva: soprattutto verso i superiori. Padre Gobbato, ex-allievo di Rocco e poi suo vescovo in Birmania, dirà in proposito: «Dovevo star attento a come parlavo, perché quello ubbidiva veramente. “Dica una parola. Obbedisco!” era il suo saluto».
1928, il viaggio verso i lebbrosi
2 giugno 1928: Padre Rocco celebra a Milano la Prima Messa. C’è giusto il tempo di stringere qualche mano, baciare qualche guancia e sorridere ai cenni del fotografo. Gli ultimi abbracci sono per i genitori, la sorella Daria e il fratello Paolo (3). Il 19 luglio si parte: destinazione Birmania, un ignoto spigolo di mondo che il mondo forse ignora di avere. Ma Rocco ha 25 anni: e, a 25 anni, “ignoto” vuol dire “avventuroso”.
Così il nostro avventuriero s’imbarca con un bagaglio leggero: due baffetti sotto il naso, un paio d’occhialetti sopra, due legni a forma di croce e una fame che da sola sfida il mal di mare. Ben cinque sono i pasti quotidiani a bordo del Genova: la motonave che, dal porto omonimo, scivola fino in India. Cielo e acqua, acqua e cielo: per giorni. Tutto è monotono e noioso, meno Rocco. Due tuffi nella piscina di bordo, due trotti sui cavalli imbarcati ma molte di più sono le nuove amicizie: giovani missionari o viaggiatori elettrizzati, con gli occhi spalancati sull’orizzonte come lui.
E’ espansivo e ironico. La mattina dice Messa e la sera una preghiera per i cari che ha lasciato a Trezzo: è il momento della malinconia. Tiene un diario di viaggio, che invierà a casa. Dedica righe e righe ai tramonti o ai delfini. A ogni scalo trasecola per il colore della flora indiana, delle vesti indiane e degli indiani. E lo stupore sembra la sua costante preghiera.
Ai primi monsoni, verso Bombey, onde alte 10 metri squassano la pancia della nave e di chi ci sobbalza. Ma in un paio di giorni un fisico da Palatèe si adegua anche a questo. E, mentre gli altri passeggeri brontolano ancora nauseati, Rocco appunta sul proprio diario: «La Santa Chiesa ci proibisce di ballare, ma qui non se ne può fare a meno».
Finalmente lo sbarco: è il drastico attracco a una realtà nuova, sconcertante. Benvenuto a Calcutta, caro Padre Rocco. Poi Crisnagar, e Rangoon: nella cui cattedrale dice Messa alle 5.00 del 17 agosto 1928. Eccolo giunto a destinazione. Inizia una nuova vita, in cui la paura e fa a pugni con la fede; e le prende.
La “missione” di Rocco: dai villaggi alla Loilem dei lebbrosi
I primi anni di missione sono idilliaci: in groppa ad un ronzino, Rocco visita i villaggi avvitati sulle verdeggianti colline del distretto di Wary. Si macera nella lingua, nei costumi locali. Ed è assistente di Padre Giuseppe Fasoli, con cui spartisce una scelta fatidica. Giugno 1937: i due stanno trapiantando cavoli. Arrivano due laconiche lettere di mons. Sagrada. Una è per Padre Giuseppe: «Mi dispiace, ma devo portarle via il suo assistente». L’altra per Padre Rocco: «Mi raggiunga al più presto a Taunggyi, la mando ad aprire una nuova residenza a Loilem tra gli Shan». L’interessato commenta: «I cavoli più si trapiantano e più diventano belli». Rocco, cavolo del Signore, raccatta tranquillo i suoi due cenci e parte: sulle spalle ha una gerla di libri, nelle vene l’intraprendenza del bisnonno calzolaio.
Quale strada per Loilem? Mai sentito, quel nome. Chi non sa dove va, diceva Napoleone, arriva più lontano. Anche se, nel caso di Rocco, chi va non ha un soldo in tasca. Il viaggio è tutto fuorché confortevole. E dal proprio vescovo, Rocco non può aspettarsi che una benedizione e una pacca sulle spalle. Il 17 luglio 1937 pranza col vicegovernatore di Loilem, l’irlandese Mr. Rositter, che butta lì: «Perché non aprire un lebbrosario?».
Guarire i lebbrosi da quella vergogna: l’aggettivo “immondi”
Il Morbo di Hansen (volgarmente detto “lebbra) non provoca dolore ma il lento disfacimento del corpo. Le cure non mancano e il contagio è arginabile. Ma la stigma sociale e l’eco biblica di quelle piaghe aggravano la condizione del malato. A Loilem opera ancora oggi il lebbrosario «San Giuseppe Cottolengo» fondato da Padre Rocco che, tra il 1938 e il 1981, vi curò 2400 lebbrosi. Dei quali solo 400 morirono: tutti gli altri sono guariti; e devono questo favore all’altruismo di Padre Rocco.
Il complesso, circondato da una folta pineta, sorge su tre colli a 1400 metri sul livello del mare; poco distante da Loilem e poco da Laikha. Perché, a Laikha, Rocco pensa bene di aprire una “filiale” del lebbrosario; una “colonia” in cui i figli sani crescano senza la loro infamante generalità: “nato da lebbrosi”. Non solo. Rocco organizza in due villaggi anche i guariti: insegna loro a coltivare, a sopravvivere. Perché nessuno mai darebbe loro lavoro.
Le prime costruzioni per i lebbrosi di Loilem sono sovvenzionate dei re locali (i “Saboà”), dell’amministrazione inglese e della Provvidenza. Che opera tramite la solita Intraprendenza di Padre Rocco: si procura una bici, poi una jeep; come e dove resta un mistero della sua Fede. Costruisce dodici capanne in bambù: ed il 15 maggio 1938 vengono ad occuparle i primi trenta lebbrosi. Sono atterriti ma rassegnati: rastrellati nei boschi dalle autorità, s’aspettano che da un momento all’altro sbuchi un plotone d’esecuzione apposta per loro. Invece no. Arriva Padre Rocco, barba e occhiali; lo tallonano due Suore di Maria Bambina, e non sembrano armate. Anzi, sono gli unici tre cristiani nei paraggi ma non intendono neppure discriminare fra i lebbrosi. Tutti sono accolti, curati e perplessi allo stesso modo: niente plotone?
La denuncia dei lebbrosi contro Padre Rocco, che riserverebbe un medicinale ai malati cristiani
Ormai i lebbrosi birmani conoscono per fama Padre Rocco, e per fame si trascinano fino al suo lebbrosario: sempre più popolare, sempre più popoloso. Per strisciare fino a Loilem, una lebbrosa perde perfino una gamba, o ciò che ne rimane. Ma la cosa non stravolge nessuno; quasi avesse perso un bottone. Le casette per i lebbrosi hanno una veranda ed un orticello indipendenti: ciascun ricoverato ha in consegna tre galline, ha il dovere di contribuire al lavoro comunitario, ha il diritto di avvalersi dell’insegnamento evangelico. Di cui si occupa Padre Rocco, pioniere della Missione vecchio stile: lì, sotto un grande albero, abitua i lebbrosi a tracciare con i moncherini il Segno della Croce. Parla loro di angeli e diavoli, che bisticciano come cani e gatti. Considera il Battesimo una biglietto per il Paradiso, e lo amministra agli alunni migliori o a quelli moribondi. I lebbrosi finiscono così col fraintendere il Sacramento: a quanto pare, chi lo riceve muore. Rocco scioglie il malinteso, ma ne avrà ben altri da sbrogliare. Sarà addirittura una sua ricoverata a denunciarlo alle autorità. L’accusa mossagli è grave, gravissima: favoreggiamento verso i lebbrosi cristiani, cui egli riserverebbe un medicinale. Poi il frainteso si chiarisce: il “medicinale” era l’Ostia Consacrata.
Ecumenismo tra i lebbrosi di Loilem
Intanto, la città dei lebbrosi si sviluppa secondo un piano razionale: Rocco ne è il parroco, il sindaco, l’architetto, l’elettricista, il meccanico e l’idraulico. Costruisce una chiesa e, per sé, un alloggio in stile coloniale: la Roman Villa. Dietro casa scava un laghetto artificiale per la pescicoltura e, poco distante, attrezza un’officina meccanica. Si occupa di tutti. E’ lui a regolare le semine ed i raccolti (patate, fagioli, arachidi e riso). E’ lui ad istruire i lebbrosi (quelli abili) all’impiego di macchine agricole, che Dio solo sa dove s’è procurato. E se mancano i soldi? «Semplice, si fanno pregare i lebbrosi. Io non sono un ragioniere, ma il Signore lo è». Semplice.
Con casereccio ecumenismo Padre Rocco rocvera nel suo lebbrosario uno stregone e dodici bonzi buddisti. A condizione però che si levino prima il tradizionale abito giallo. Perché l’abito color zafferano impone ai bonzi di non lavorare, e al lebbrosario si lavora tutti. Di ciascun lavoratore Rocco tenta poi di fare un cristiano: è il suo di lavoro. Persino lo stregone Sang Lek accetta il Battesimo. Padre Perego gli pare uno stregone più potente di lui, o almeno più coraggioso. Visto che, una notte, quello lì con la tonaca bianca ha soccorso Sang Lek, in preda alle convulsioni, invocandogli sopra certa Ave Maria. Durante una carestia, il bonzo del vicino villaggio provvede a rifornire di cibo il lebbrosario: è una prova di gratitudine. Si solennizza l’avvenimento con un mistico corteo di buddisti in giallo e di cattolici in bianco. Insieme. Perché siamo tutti formiche dello stesso formicaio.
La divina intraprendenza del missionario tra i lebbrosi
Nel 1941 non c’è più un bicchiere di benzina in tutta la Birmania. Rocco s’alza alle 02.00 di notte, ravviva la brace sotto due rudimentali alambicchi, e distilla in olio la resina di pino. La raffinazione dura otto ore: Rocco, in tenuta da spazzacamino, veglia in cielo ed in terra. Dal cielo incombono gli attacchi aerei, qualora le pattuglie americane avvistino i falò; a terra il pericolo è che Loilem salti in aria, Rocco e alambicchi compresi. Ma tutto va liscio come l’olio distillato e, vendendolo in sostituzione della benzina ai soldati giapponesi, Padre Perego assicura una ciotola di riso ai suoi lebbrosi.
Nel 1956, col protrarsi della guerra civile, Rocco si ritrova senza un chicco di riso né il becco di un quattrino. Bussa alla porta dell’Ufficiale Governativo. Questi sta sorseggiando l’aperitivo e ne offre al sacerdote, ascolta le richieste di Rocco e le disperde tra invalicabili anfratti burocratici. Poi, posando il bicchiere, l’Ufficiale prega devotamente il Padre di fermarsi a pranzo. Rocco s’infiamma all’idea che gli venga imbandito un banchetto, mentre le ciotole vuote dei suoi lebbrosi restano vuote. Così, con il piglio fiero di un Padre Cristoforo, avverte l’Ufficiale: «I lebbrosi sono vostri, e se per le tre pomeridiane non potrò comprare un po’ di riso, alle cinque ve li condurrò qui tutti, e tu darai loro da mangiare». Il pezzo grosso si sente spumeggiare l’aperitivo nello stomaco, e sua moglie scolora all’annuncio di dover ospitare circa duecento lebbrosi per l’ora del tè. I due rincorrono perciò Rocco mentre calmo calmo se ne va: e, prima delle 15.00, gli consegnano 500 rupie per offrire ai lebbrosi una ciotola di riso a nome loro. Ma a distanza. Inoltre, rientrato a Loilem, Rocco trova ad attenderlo una lettera di Padre Fasoli, con allegata un’offerta di altri 200 dollari. Padre Perego riconosce in quei 200 verdoni l’operato della Divina Provvidenza che, tuttavia, lui ha saputo bruciare sul tempo.
Nel 1967 manca il vino per la Messa. E Rocco imbottiglia 150 fiaschi di mosto d’uva americana, rinforzato con grappa. Addirittura, pensa di rifornirne tutte le missioni della Birmania.
Nel 1966 una manica di bevitori e oppiomani complotta di depredare il lebbrosario. Valutano una bazzecola sbaragliare quattro miseri lebbrosi, tre suore indifese o un prete in sottana: e valutano male. Perché i miseri lebbrosi s’armano di bambù aguzzi, mentre Padre Rocco scioglie i suoi tre cani lupo e tira fuori uno schioppo. I balordi s’accorgono d’aver valutato male e non infastidiranno più il lavoro di cui ferve quel lebbrosario. Nel 1973 a danno dei malati accolti viene perpetrato perfino un tentativo di rapimento, ma Padre Rocco tiene testa anche a questo sopruso.
Con la stessa fermezza difende ii suoi lebbrosi dai leopardi che, di tanto in tanto, Suor Fausta si ritrovava in cucina, dalle tigri che la stessa incrocia sul sentiero e, soprattutto, dai tre metri di serpente che si attorcigliano un po’ dappertutto: sulla mensa dell’altare, tra la legna accatastata, perfino nella camera di Rocco. E lui ce lo conferma in una lettera ad Anna Rainini: «Mentre ti scrivo una vipera è entrata in casa senza che io me ne accorgessi; con una legnata sulla testa fu messa fuori combattimento. Dicevamo…».
Ma la più nefasta delle infestazioni resta il topo, che rosicchia nottetempo le ferite desensibilizzate dei lebbrosi. I ricoverati chiedono così a Padre Rocco di benedire, o piuttosto di maledire, insomma: di sfrattare i ratti dal lebbrosario. Il che richiede un esorcismo. Il Vescovo, mons. Lanfranconi, delega il rito a Rocco che, con tanto di cotta e stola, procede: «Exorcizo vos, pestiferos mures, perché ve ne andiate immediatamente…». L’invocazione ebbe seguito. Fu un miracolo? Per i lebbrosi lo fu. Lo fu anche per Rocco che, tuttavia, da allora fece medicare e suturare i malandati mici di Loilem a una suora missionaria, che l’esperienza aveva laureato esperta infermiera.
Padre Rocco, missionario o spia?
Durante la Seconda Guerra Mondiale, Padre Rocco appare ai Giapponesi loro come una spia europea. Con questa fantasiosa accusa, lo trattengono in galera per due mesi. Quando viene rilasciato dai Giapponesi, gli Americani gli bombardano il lebbrosario. E’ il 3 maggio 1945: due bombe devastano la casa delle suore. Suor Natalina (4) è riversa a terra con il petto squarciato, Suor Fausta viene lievemente ferita al collo.
Ma ciò non basta a fugare la diffidenza dei Giapponesi, che continuano a sorvegliare il lebbrosario: e una mattina avvistano Suor Amabilia, mentre addita ad un indiano la casa in cui un suo familiare lebbroso è ricoverato. Non c’è dubbio: quella suora sta facendo segnalazioni agli aerei americani. Nientemeno. La sera stessa i Giapponesi irrompono così nella casa delle suore, armati fino ai denti. Interviene Rocco: «Innanzi tutto giù le rivoltelle; volete far morire di spavento queste povere creature?». E, alla fine, riesce a scagionare Suor Amabilia, presunto genio della spionaggio sull’orlo di un collasso.
Avventurarsi in cerca di sapone è poi un’odissea non meno azzardata che additare case: Rocco parte passeggero d’un camion, che esce di strada, e si ferisce alla schiena. Dopo una capatina in ospedale, ottiene qualche scaglia di sapone e riparte per Loilem. Sulla strada però un agente segreto nipponico agguanta Rocco, che chiaramente è una spia. Accusa confortata dall’arma che l’agente si figura nascosta sotto la tonaca del missionario: «Leva la veste, tu tieni nascoste delle armi!». Sotto la veste c’è solo la cinghia dei calzoni che, allungata a forza di digiuni, dà l’impressione di una rivoltella. Ma guarda un po’. Gli astanti ridacchiano, l’agente però non demorde e denuncia Padre Rocco come spia paracadutista americana (disarmata). Gli perquisiscono di nuovo il lebbrosario ma non i lebbrosi, senza trovare indizio; e continuano a tenerlo d’occhio. Ma l’assurdo è un altro: Rocco dà rifugio a numerosi partigiani attivi contro la sbirraglia giapponese, che di ciò non sospetterà mai.
Questa cappa di sospetti scaltrisce Rocco a tal punto che, ritornato ottantenne a Trezzo, sottacerà cautamente tutte le astuzie intraprese per salvare il suo lebbrosario: una cautela necessaria, a suo dire, per evitare che qualche spia giapponese lo denunci di nuovo come spia americana. Nonostante l’età.
Quell’uomo tra i lebbrosi: non una spia né un prete, solo un “good-man”
Rocco e le sue suore conducono una vita di stenti e distanti da casa senza lagnarsene. Nel giugno 1945 un pilota americano, inorridito dai lebbrosi, offre a Rocco la possibilità di rimpatriare: di sottrarsi a quel penoso spettacolo. E Rocco ribatte: «Se tu fossi un povero lebbroso, affamato, coperto di piaghe e ramingo, cosa penseresti e diresti se io ti chiamassi con me, medicassi le tue piaghe, ti alloggiassi e ti provvedessi cibo e medicine?». Il pilota, battendogli la mano sulla spalla, pensa e dice soltanto: «Good man». Perché la lebbra ci impaurisce, ma ci sbalordisce chi ha il coraggio di curarla.
Padre Fasoli, rimpatriato per qualche tempo, mostra a una conferenza sull’attività missionaria una diapositiva, che ritrae Padre Rocco con un capannello di lebbrosi. Al termine, un signore gli porge 30.000 £: «Padre, questo per i lebbrosi di Padre Perego, ma quella diapositiva non la proietti più». Nel giugno 1962 Rocco si prefigge di approfondire le proprie conoscenze mediche sulla lebbra, partecipando ad un convegno di leprologia a Fontilles, in Spagna. Sul treno si intrufola in un affollato scompartimento, dove tutti ascoltano estasiati un distinto signore che fa un gran dire di missionari e missionarie. Finché Suor Franca Nava, assistente di Padre Rocco, non fa presente al panegirista che il missionario sedutogli davanti vive da 25 anni curando i lebbrosi. Ma davvero? il distinto signore se la dà a gambe, con tutto il suo seguito di estasiati uditori: e Rocco può così comodamente appicciarsi il toscano per una fumatina. Giunto a Fontilles, mentre tutti gli altri piagnucolano per la mancanza di un punto di ristoro, Rocco punta ad un albero da frutto lì vicino. Röba mangiatoria, si dice a Trezzo, l’è menga pecatoria; rubare per fame non è peccato.
Rocco è devoto alla Madonna. E, quando attraversa boscaglie infestate da banditi, si rincuora fischiettando «Oh mia bela Madunina». Oppure bisbiglia ai visitatori che lo accompagnino: «Gh’è pericul, tachèm al rusari». Questa devozione non basta però a stornare l’anonima scarica di mitra che lo raggiunge la mattina del 29 agosto 1960, mentre si reca a Laikha per servirvi Messa. Eppure, dei ben ottanta proiettile che crivellano la jeep, uno solo va a finire nella spalla destra di Rocco. Il ferito mormora: «In manus tuas commendo spiritum meum», poi si ferma a una curva e si accascia sull’erba. Le mitraglie tacciono. Zittisce anche Rocco che, in silenzio, rivaluta il giorno in cui s’è professato missionario; e considera bello congedarsi così da quella vita così donata.
Non c’è speranza per la pallottola, irrimediabilmente smussata dall’impatto con quell’osso duro di un Palatèe. Lui invece ha l’omero destro frantumato in sette pezzi, ma se la cava con ventidue giorni al General Hospital di Rangoon. Passati i quali torna alla sua vita di ordinario rischio: può ammalarsi tra i lebbrosi, finire sequestrato dai ribelli o trucidato dai banditi. Nel 1974, per dirne una, scampa ad un nuovo agguato di ladroni sulla strada per Laikha. Ma ormai Rocco ci ha fatto il callo e, in molte lettere, risponde all’apprensione dei famigliari circa il suo stato di salute con un’immancabile forma vernacolare: «Tirèm innanz», il “tiriamo avanti” di Amatore Sciesa.
Nel 1972 affronta due operazioni chirurgiche: a gennaio, per stenosi allo stomaco maritata ad ulcera duodenale; ad ottobre, per ernia doppia. Ed in questi termini scrive a casa del primo intervento: «I dottori sciacquarono le mie povere budella lì fuori sul tavolo operatorio, però mancavano un terzo dello stomaco ed un pezzo del duodeno…bastante per fare una buona buséca coi fagioli di Spagna». Approfittando del periodo di convalescenza, Rocco dattilografa in Italia la storia del suo lebbrosario in settanta pagine: ne verrà fuori un libro, un incrocio tra i fioretti di San Francesco ed un romanzo di Kipling. «Loilem, un pezzo di cielo caldo» (Emi, 1974, 1982, 2003).
La casa tra i lebbrosi e quella lasciata in Italia
Tutte le sere Rocco mira ad occidente, aguzza lo sguardo e traccia nell’aria una benedizione. E’ per i suoi cari, è per gli amici lasciati a Trezzo. Da anni ne ha notizia solo per lettera. E’ morto papà, è morta mamma. Ma soltanto nel 1956 Rocco può rientrare in Italia, per qualche mese di riposo. Poi di nuovo in Birmania, tra i lebbrosi. Trezzo era casa sua: Loilem lo è. Sebbene, in una tagliente lettera ai famigliari, Rocco ironizzi amaramente che: «Se una volta la Birmania era chiamata ”Terra dei Pavoni”, ora la si può chiamare “Terra dei Ladroni”; tutti rubano e tutto rubano».
Rimpatria la seconda volta nel 1962. Gli presentano parenti e nipoti che non riconosce più, o che neppure lo conoscono. Si festeggia. Ma il festeggiato non ha molto da dire e, se parla, parla dei suoi lebbrosi. Lui lì, di fronte a una generosa porzione di risotto condito in quattro diversi modi, e loro là senza il condimento né il riso su cui metterlo. La cosa lo tormenta. Tiene anche un incontro alle elementari di Capriate San Gervasio.
Poi di nuovo in Birmania. Fino al 1981, anno del rimpatrio definitivo, che i superiori quasi gli devono imporre. Padre Rocco ha ormai più acciacchi che anni ma non si lagna né degli uni né degli altri: vorrebbe restare ancora, anche se restare vuole dire restarci. Infine, chiede al governo birmano tutte le scartoffie e i timbri necessari per il rientro in Italia: vuol far le cose pulite. Quando però ottiene un regolare mandato di espulsione, si trattiene in Birmania ancora qualche tempo. Il che gli costa la galera. Così, per due mesi, un vecchio missionario viene incarcerato e nutrito con due banane al giorno. Chiaro che, al rilascio, Rocco è allo stremo. Quando il jumbo atterra a Roma, ne scende un anziano scheletrito, itterico: con le ciabatte ai piedi, una camicia fiorata ed un paio di calzoni bianchi tenuti su con la corda. Tutto quello che ha, lo ha in tasca: ha in tasca il passaporto.
La premurosa accoglienza dei famigliari rimette in forze Padre Perego che, per qualche tempo, accetta l’ospitalità della sorella Daria ved. Casiraghi: abita in Piazza Cereda, a Concesa. La messa nella chiesa lì accanto la segue tutta in ginocchio e, anche a casa, il rosario dice di non poterlo recitare che da genuflesso. Ha ottant’anni e, dal 1928, ormai ne è passata di Adda sotto il ponte trezzese: tutto è cambiato, ponti compresi. Ma ci sono cambiamenti che davvero sconcertano Rocco: i servizi igienici in casa, per esempio.
Poi Rocco sceglie di ritirarsi presso la Casa di riposo del PIME, a Rancio di Lecco. Vi muore il 9 luglio 1984, per sclerosi cerebrale. Prima di spirare non pronuncia frasi memorabili: sorride solamente; e tutti i presenti s’inginocchiano. Anche i laici, anche gli atei, anche noi. Rocco riposa ora al cimitero presso Villa Grugana (Merate). Visse asciugando il pianto ai lebbrosi e morì ridendo alla morte: per lui non si recitò il Requiem ma il Gloria.
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(1) – Rocco riceve: Vestizione Clericale il 24 settembre 1914, Tonsura il 19 marzo 1926; Primi Ordini Minori il 12 marzo 1927, Secondi il 6 agosto 1927; Suddiaconato il 17 dicembre 1927, Diaconato il 3 marzo 1928, Presbiterato il 2 giugno 1928.
(2) – Vedi «Il dono di una vita» di Domenico Vescia, ed. BA.MA, Trezzo sull’Adda 2002.
(3) – Perego Carlo Ferdinando (1872-1946) sposò nel 1898 Boffetti Rosa Maria (1877-1949) di Filago. Loro figli furono: Celestino Maria (1899-1909), Paolo Rocco (1901-1954), Rocco Francesco (1903-1984) e Daria Laura (1905-1997).
(4) – Al secolo Carolina Giudici (1902-1945) nativa di Meda, Suora di Maria Bambina, braccio destro di Padre Rocco. Raccolse lei la resina da distillare in olio; assistette i lebbrosi per anni. Instancabile, e sempre sorridente: stanca o no. Era solita dire: «Io morirò in piedi». Così è stato.
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FONTI
– Archivio Generale Pime;
– Archivio Parrocchiale di Trezzo;
– Rocco Perego: «Loilem, un pezzo di cielo caldo»,
Ed. Emi, Bologna 1974 (II^ edizione 1982, III^ edizione 2003);
– Lettere, foto e memorie della famiglia Casiraghi;
Un ringraziamento speciale va a Padre Angelo Bubani (Pime), don Gaetano Gallazzi (che a Padre Rocco ha intitolato una sala dell’oratorio concesiano), famiglia Casiraghi Gabriele, Teresa Pirola e Laura Bestetti.
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