Po e Adda, i fiumi che gocciolano dai remi. Nel 2007, l’ultimo raid da Trezzo a Venezia, seguendo la rotta dei viaggi compiuti nel 1931, 1954, 1956 e 1982. Ecco il diario di bordo.
E 2007. Salpati il 21 luglio di quell’anno, tre ventiquattrenni concesini aggiunsero la quinta edizione ai raid remieri Trezzo-Venezia (1931, 1954, 1956 e 1982), asciugando i remi in laguna la mattina del 28: Roberto Bassani, Cristian Bonomi (il sottoscritto) e Lorenzo Perego. In plastica rossa, la loro barca si chiamava «Lisèta» come la nonna del secondo nel tentativo di consolarne le apprensioni. Su una mappa Touring Club del 1936 seguirono l’Adda versarsi nel Po, tra argini pietrosi che concedono appena ai campanili di spuntare. I marinai accorciavano il colloquio alle correzioni di rotta: «più col destro», «più col sinistro» o «rema cum’i donn» (alla veneta). Specie l’ultima indicazione lasciava Bassani con i remi interrogativi a mezz’aria. Tagliati Adige e Brenta, i tre toccarono l’acqua salata, pensando quale consonante le onde lagunari avrebbero consumato alla parola «barca». Fu un’imprudenza tanto vecchia da sembrare nuova.
Qui il Diario di Bordo integrale, da cui riportiamo qualche stralcio:
«Venezia sarà trezzese». Lo ripetevamo col coraggio della birra già la scorsa estate (2006), quella tanto ardente che il Po non avrebbe avuto neppure l’acqua per annegare metà della ciurma. Avevo firmato una serie di articoli sul raid operaio del 1956 che, tra Trezzo e Venezia, mise ai remi alcuni giovani ottantenni di oggi. L’impresa ebbe anche un’edizione 1931 (fascista), 1954 (dei laureati) e 1982 (quella degli sportivi). Volevamo aggiungere 2007 alla lista prima che la nostra imprudenza scivolasse nelle clessidre.
L’entusiasmo però era un contagio in tre giorni: al primo, parolaio, tutti sigillavano la serata con un irrevocabile arruolamento («Sangue del demonio, vengo anch’io!»); al secondo, pericolante, certe sussultorie scuse rendevano inagibile la parola della sera precedente; al terzo, diplomatico, ci si aggiornava ad una vaga partenza. Platonica. La inchiodammo al 21 luglio. I pochi giorni che precedettero la partenza sul naviglio Martesana saggiarono le promesse di molti, non lasciando in barca che noi tre. Lorenzo Perego, Roberto Bassani ed io. Tutti del 1983, tutti di Concesa. Lorenzo non ha mai reclamato indietro le monete d’entusiasmo che gettò all’idea. Roberto è stato più parsimonioso nel promettersi Venezia ma, una volta accennati i preparativi, ha cominciato anche lui a sognarsi i remi la notte..
Sabato 21 luglio, Trezzo sull’Adda-Lodi
L’Adda, da cui s’è appena ramificata la Muzza, è magra e nervosa. Mentre Lorenzo batte la riva per intuire fin dove prosegua la secca, Bassani e io tentiamo di trascinare lo scafo almeno finché non è lo scafo a trascinare noi in acqua. La corrente ci ruba dalle mani «Lisèta», ormai sollevata dal nostro peso, e finiamo a fiume nell’illuso tentativo di salvarla. Rialzarsi è scivoloso.. Scampati a questa secca, già altre ci costringono al traino. Scopriamo d’essere vogatori da soma mentre l’acqua inzuppa zaini e provviste. Il fiume è una liquida montagna da faticare.
Domenica 22 luglio, Lodi-Bocca d’Adda
Il sole ci fa sragionare. Bassani chiede a me che remo se la mezz’ora dopo tocca a lui o a me farlo. Sotto il cappello teniamo sempre umido un fazzoletto e i miei due compagni aprono tanto di ombrello nelle ore senz’ombra. Calcoliamo che a darci una mano sono ragazzi della nostra età o anziani che potrebbero quasi esserci nonni: i giorni successivi ratificheranno questa stima. La generazione dei nostri padri pare più diffidente o rassegnata alla diffidenza.
Ormeggiamo a Formigara nel primo pomeriggio. Sentiamo molti giovani accampati vicino al porticciolo schitarrare canzoni goliardiche. Ci arrampichiamo in paese dove entriamo negli anni Cinquanta su cui l’unico bar aperto pare affacciarsi, televisore a parte.. Orecchiamo un dialetto che già innesta bergamasco su emiliano.. L’atmosfera è casereccia e metafisica insieme..
Il paese più vicino, o meglio il meno lontano, è Spinadesco. E non si vede. Muoviamo le prime remate nel Po morto che curva incontro all’Adda.. Tutto è desolata vastità che solo orme di cani e gabbiani misurano.. Bassani dorme con un coltello a serramanico nella destra, perché teme l’incursione delle nutrie. «Se ma vee dent in tenda vun da chi animai lé – esclama – ga disi cus’è?». Alti ululati e sgozzati gridi di gabbiano ci trattengono persino dall’andare a far pipì..
Lunedì 23 luglio, Bocca d’Adda-Boretto sul Po
Ci leviamo prima della sveglia, alle 5.15. L’aria è fresca, il fiume si spoglia di una leggera bruma ma chi sta in poppa si assopisce continuamente. Di mattina la barca è una culla a remi..
Tutti però rallentano e ci suonano il saluto che è anche un augurio. L’ospitalità del Po ci aprirà le braccia per tre giorni buoni. Conforta sapere che lo scafo resiste al traffico delle altre imbarcazioni, benché non se ne sia ancora avvistata una a remi minima come la nostra. Rispondiamo volentieri al buongiorno dei pescatori che fin lì eravamo noi a salutare timidamente per primi. La corrente e il vento sono benevoli, purché si obbedisca ai cartelli romboidali che indicano i canali: le profondità più fluenti. Scantoniamo così le secche, rimbalzati da una riva all’altra, e puntiamo la nottata su Brescello.. Tinelli ci invia il saluto di Trezzo, e il fatto d’essere ormai impegnati davanti mezzo paese ci stringe i pugni ai remi. Immaginiamo parenti e amici adunati in municipio mentre avanzano lente bandierine di conquista lungo il grande fiume. Il sindaco ha la feluca.
Martedì 24 luglio, il Po da Boretto a Felonica
A mezzogiorno rintoccato il deserto d’acqua che il Po sembra essere s’interrompe a Borgoforte. Lorenzo sorveglia la barca mentre Bassani e io cerchiamo chi ci imbottisca qualche panino. La trattoria «Bigiolla» è chiusa ma entriamo nella casa attigua, dove mamma e papà (che siede capotavola) chiamano quattro figli alle forchette. Narriamo il nostro viaggio a remi col cappello in mano ma già l’uomo ci interrompe, invitandoci a sedere. Il rifiuto è insicuro, ma non possiamo lasciare Lorenzo digiuno ad aspettarci. Il capofamiglia afferra allora la larga padella fumante in piena tavola e ce la porge perché noi tre la si svuoti all’ombra del ponte ferroviario. «Tè, ma va che me lo tolgo da bocca io!» dice..
Il vento s’alza prepotente ma ancora a favore: ci spinge piroettando verso la foce del Mincio dove, alle 17.00, si rannuvola un temporale. Forzando la remata, m’illudo di poter superare il cielo che inizia a pioverci addosso. Il vento sembra scostare il più del maltempo ma Bassani teme le saette, mi chiede di levare la catenella che porto al collo e bisticcia con Lorenzo sull’origine dei fulmini. Stizzito, cerca di schizzarlo con l’acqua di fiume che però lava (o sporca) a me la faccia.. Confuso di fatica, chiamo «Ostia» Ostiglia, «Follonica» Felonica.
Il Po scorre senza vigore; però il vento si posa, conciliando una placida vogata. C’è luce fino alle 22.00 scarse. Infiliamo più di una secca, perché i cartelli di navigazione li vela il buio. Ridiamo isterici appena insabbiati ma, liberato il riso, abbiamo l’entusiasmo in panne; tanto peggio che i gabbiani affilano i loro strilli volteggiando come avvoltoi e i cefali si mettono a zompare nelle acque magre. Uno risuona con violenza sullo scafo, un altro sbatte al remo: il terzo finisce a bordo, enorme e viscido, dibattendosi tra le mani di Roberto che lo rimette a fiume. Tutti presentiamo massi sporgenti e tronchi solo dove non ci sono ma, più degli altri, lui addita urlando i fantasmi delle basse: «la secca! – sbotta, oppure – gh’è ‘l punt!». La paura muove accuse di imprudenza.
Ci lasciamo sulla destra un’immensa centrale dagli avernali stridori. Quasi fraintendiamo il suo ponte d’imbocco a probabili turbine con quello sotto cui aspettiamo di passare. Chiediamo ad un inaspettato pescatore quanto ancora Felonica disti e la sua risata echeggia tragica sul Po. Ci accasciamo sui sedili dove il freddo aguzza la fatica. Ogni curva che scopriamo desolata ci scende di un gradino nella disperazione. Concordiamo di raggiungere l’unica luce che trema sulla riva, per accamparci là: quando scopriamo che si tratta proprio di Felonica, siamo incapaci di stupircene. E’ l’1.20. Il capanno ha porta aperta e luci accese.
Mercoledì 25 luglio, Felonica-Polesella
Il piccolo paese, che è una grande famiglia, respira la notizia del nostro arrivo. Molti tengono pronti in saccoccia i consigli da darci. A Murano il barista ha una nipote, che ci assicura di olimpica bellezza: Paola Donà si chiama, e lo zio pretende noi si vada a innamorarsi di lei. In fila dal droghiere dobbiamo cantare almeno tre volte le avventure già valicate ma, nonostante gli incoraggiamenti e l’avviso di Gastone, ci incagliamo in una secca appena partiti. E questa volta tocca scendere nelle sabbie del Po che scopriamo davvero insidiose. In un passo, l’acqua che arriva alla caviglia già lambisce le cosce. A Bassani il costato, che però è il primo a smontare. Avanziamo a ritmo di requiem.
A gestire il locale fluttuante «L’Oasi del Po» sono Vanni e Vanna. Lui provvede all’ormeggio, a panini e pizza lei. Bassani assaggia appena gli affettati: «Che schivi – ripete in crescendo – inn da butega!». A sua mamma che gli telefona annuncia: «Ah, mama, so cott!». Ma a puntargli contro il fatidico quesito è il padre: «Vigni giò a tov?». «No, dai, – tronca Roby – tiri giò i bustén dal Fodera, ca ma pasa töt». Poi mugugna ancora qualcosa, cui il genitore fa eco: «Se’ sicur da sta bee? Ta riesat menga gnaa a parlà!». Il sole ci rende irascibili ma la mia ansia d’arrivare viene ben arginata dagli altri, che votano di tirare in barca i remi della giornata. Saggiamente Lorenzo mi consiglierà calma: «E’ come se stessimo portando in tre il più prezioso dei cristalli. Cedesse uno, agli altri rimarrebbe solo di raccogliere i cocci. Lasciamo riposare Roby stasera, anche perché il riposo non può che farci bene». Sono le uniche parole sensate di oggi..
Giovedì 26 luglio, Polesella-Rosolina
Ci alziamo quando l’alba è ancora una cicatrice. Le andiamo incontro su un’acqua che il vento e l’alta marea non increspano. Verso le 10.00 incontriamo il locale «Porte del Delta», in Serravalle, di dov’è nativo il nostro barbiere: Vittorino Andreotti. Ieri avremmo trovato chiuso. Di quanto ci imbandiscono niente sopravvive; facciamo anzi incartare gli affettati della colazione austriaca per il pranzo, che sbrighiamo all’ombra di un idrometro.
Dopo l’infinito ponte di Bottrighe e un metanodotto ricoperto di gabbiani, il cui guano ci galleggia attorno, sospiriamo fino alle 17.30 la biconca di Volta Grimana che ci avvierà ai canali. Siamo stanchi del Po, degli argini pietrosi che concedono appena ai campanili di spuntare e degli svenevoli quadrati a pesca in acque così spente. Ad attendere che le porte s’aprano c’è lo yacht monegasco cui ci affianchiamo, indegni d’essere la loro scialuppa. I padroni s’offrono pietosi di trainarci, e il nostro rifiuto compra la costosa soddisfazione che ci si tatua sui volti. Almeno finché non imbocchiamo, verso Chioggia, il canale Brondolo voluto dal Duce negli Anni Trenta (come mi dirà Massimo). Qui i pescatori e chi briga su chiatte fortunatamente parcheggiate tacciono alle nostre domande. Indicano solo l’osteria «Lazzarin», dove l’omonimo e corpulento proprietario sta degustando anguria e spinaci.
Venerdì 27 luglio, Rosolina-Alberoni
Ci sveglia la colazione. Il congedo del proprietario ha la forma di un anguria che, assicura, ci farà da scialuppa. La figlia ce la porta fino all’imbarcadero. Traversiamo Adige e Brenta, domati dalla stagione, in pochi minuti. Chi presidia le conche ci rimprovera il preavviso telefonico di almeno due ore che non abbiamo rispettato, ma ci apre comunque. Dall’ultima chiusa a Brondolo di Chioggia ci scortano alcuni giovani pirati intenti a seminare vongole. «Mi me credeva d’esere mato – commenta quello che vuole scattarci una foto – ma voi si pegio!». Al ristorante «Brustolina» mangiamo pesce, pensando quale consonante le onde lagunari consumeranno alla parola «barca». Sarà ben dura, temiamo, governare uno scafo fluviale in quasi mare. E in effetti lo è. Moltiplichiamo la paura per tre.
Sul piazzale della trattoria, Roby smania di nuovo: «Ma l’ii menga capida che ‘l munt l’è di ladar? – rincara – Bisugna ves disunest! Prem peschereccio ca pasa, sa tacum adree fin a Vanesia!». E io: «Ma ga disum cus’è al Tinell?» cui Bassani ribatte maligno: «Ga disum ca sem indree; e ‘l specium a Vanesia, in di fraa, coi pè so la cardega!». Soffia qualche altra fesseria prima di tornare un oggetto nelle mani della stanchezza. Lorenzo e io nascondiamo la falce alla Morte, che davvero temiamo, strillando canti da chiesa. Ma mentre una chiatta in transito ci riempie d’onda la barca, quasi rovesciandola, Roby si riaccende: «’nventan pô, Bunom, da ‘nda a Vanesia in barca! ‘nventan pô da vacat! Ta m’è fregaa anca ‘sta volta, ma dess dem po nigott per un ann!». Pareva il nostro epitaffio ma è finito col diventare il motto del raid: «’nventan pô!».
Ai due affacci sul mare lo sconforto è quasi nausea. Bassani perde di nuovo le staffa, o forse non le ha ancora recuperate da Polesella: «Sa manca amò? Manca poch? Dai, dai, ciama Bareggi [un amico di sempre] e diga da vigné a tom, perché me g’ho piee i ball da remà!». Le rive manco si scorgono. «Quesché ‘l buscia ‘ncamò!» dico svogliatamente io che, esasperato, lo crivello poi di ingiurie tra cui «facia da palta». L’alterco placa entrambi. Lorenzo ci guarda dal confine tra sconcerto e ilarità, insegnandoci la calma che mantiene. A rinfrancarci, dopo Pellestrina, è una barchetta che rema accanto ad una canoa. Le conducono due veneti che si avvicinano incapaci di definire il natante capitatogli negli occhi. A noi che spieghiamo di dove e come veniamo, ribattono lapidari: «Mi no sa cosa dir!» e «Gh’i on coragio de leon!». Queste poche sillabe ci rimettono ai remi..
Sabato 28 luglio, Alberoni-Venezia
Apriamo gli occhi sulla sveglia puntata alle 6.40. Alle pareti della stanza ancora s’allarga il tricolore che, euforico, Bassani ha steso ieri. La colazione è fugace perché il pensiero già sta a Venezia: si tratta solo di raggiungerlo a remi.
I canottieri della Bucintoro ci squadrano perplessi, senza sguainare una delle domande cui c’eravamo preparati. Sebastiano (il custode) avverte che, per rincasare il natante su un furgone, dovremo trasportarlo fino al Tronchetto. Ma non è problema dei conquistatori che oggi siamo. La laguna sembra sdraiarsi fedele solo ai nostri piedi. Abbandoniamo parte del bagaglio per raggiungere il convento degli Scalzi. Qui consegno al priore Padre Roberto Magni (nativo di Merate) la lettera vergata da quello concesino.
Esordisco, come già immagino da ore, dicendogli «Siamo scalzi come lei» ma mi accorgo che il carmelitano indossa scarpe da tennis a mo’ di ciabatte. Deponiamo l’attesa all’ombra del cortile mentre Padre Roberto ragguaglia i confratelli e calibra il da farsi. Dopo una scarsa mezz’ora ci raggiunge sorridendo con sei buoni pasto per rifocillarci al vicino ristorante «Ai Scalzi» e l’offerta di tre giacigli tra le mura carmelitane. Non sappiamo come ricambiare, soprattutto la fiducia che ci accorda: così disarmata e maiuscola da affidarci un telecomando per entrare ed uscire dal portone quando più ci aggrada. Anche di notte. La nostra stanza, con bagno attiguo, incornicia alla finestra Canal Grande (il «canalasso») e la stazione. E’ appoggiata alla chiesa, sfiorata dal corridoio che porta al convento, dove una piccola cucina ci viene lasciata aperta..
Ritorniamo alla Bucintoro, di cui un iscritto ci esibisce le impolverate glorie. Un rosso gonfalone ripete ancora sotto la «dodesona» (alata da dodici remi) il dorato motto di d’Annunzio: «senz’ali non può».
4 Responses
Lena Maldone
Fantastica impresa !!…mi sono divertita tantissimo a leggere il diario di bordo che non avevo ancora letto…soprattutto leggendo le
frasi in dialetto dette da Roberto Bassani …e comunque ce l’avete fatta ragazzi…. BRAVI !!!
Cristian Bonomi
Grazie Lena! All’inizio, eravamo incerti se mettere o meno le frasi in dialetto: ma colorano molto, in effetti. Non remavamo certo in italiano!
tonitraglia
Bravissimi, certe cose si fanno una volta sola nella vita!
Cristian Bonomi
Grazie Toni! Con o senza di noi, confidiamo nuovi equipaggi imbraccino i remi. Un saluto, c.