Insieme ai vigneti, i gelsi sono il colore di cui più il panorama lombardo ha sofferto la perdita: le piante di Lodovico il Moro, risorse, simboli e unità di misura.
Nelle superstiti boscaglie fuori Trezzo se ne conta ancora qualcuno. Ma in paese l’ultimo gelso si affaccia alla cinta di casa Bonfanti, in via Appiani. File di «murum» (gelso in lombardo) come questo contornavano un tempo i campi di fumento o le vigne digradanti verso l’Adda, piantato uno a certa distanza dall’altro. L’intervallo si chiamava «cabiöo». I gelsi erano così frequenti da ispirare modi di dire, come «murum föra da fila» per additare un tipo bizzarro. Le foglie del gelso, diffuso in Lombardia da Ludovico Sforza detto perciò “il Moro”, erano colte per nutrire i bachi da seta («cavalee»). Il duca irrobustiva così di un nuovo capitolo l’altrimenti scarsa economia rurale dei contadini lombardi.
Nel primo Novecento un «bigatee», perlopiù incaricato dalla filatura Zoia di Grezzago, affidava alcuni bachi al contadino. In aprile. E il contadino li collocava sui ripiani della «scaléra», in cucina o in stanza da letto perché la temperatura si mantenesse sui 20-25 gradi. In questo clima i bachi erano forniti due volte al giorno di foglie fresche, gabbate dal gelso e tagliate in un apposito trinciatore: almeno per le prime settimane.
I bachi andavano poi “in furia”: mangiavano cioè a dismisura prima di incrisalidire nel verde degli «scuétt»: un bosco in mazzetti di erica fissati alle scansie.
I bozzoli così ottenuti, detti «galètt», erano rivenduti in giugno alle filature o presso il Circolo Cattolico di Piazza Libertà. Anche se per secoli i proventi dei bachi spettarono in corvè («pandési») al latifondista, i cui fittavoli ne accudivano una quantità proporzionata alle terre, e quindi ai gelsi, che avevano in uso. Tenevano per sé solo i bozzoli in cui il baco («gatoss») moriva. Questi venivano detti «Patasciòll» e bolliti dalle massaie, che ne imbottivano trapunte o cuscini.
A eleggere Giobbe patrono del paziente allevamento fu proprio la sua biblica pazienza. Ma i gelsi non erano solo una risorsa. Segnavano anche (come il «murum da via Cavour») punti di ritrovo; pennellate, insieme alle vigne, di un paesaggio lombardo ormai smarrito.
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