Insulti in dialetto lombardo: più risa che offesa

Elogio del «Barlafus». I sorridenti insulti in dialetto lombardo: battesimi di osteria, ironie che alleviavano le fatiche dei campi, offese complici ma sprezzanti. «Sciurass!» contorce sul viso un disprezzo giacobino per lo sciatto riccone, che l’italiano chiama appena «signorotto».
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La fatica dei campi, alleggerita appena dalle ironie dialettali

Gli insulti in dialetto lombardo non hanno la punta avvelenata. Scuotono più riso che rabbia. Il geometrico «rutunt» (rotondo) disegna una mente senza spigoli d’acutezza. «Intrech» (intero), «tripee» denunciano scarsa manualità in chi sembri tripode pericolante o ceppo da sbozzare. Il paragone con gli oggetti restituisce l’immobile imbarazzo dell’insultato, che si lascia muovere dagli altri come un «barnàsc» (paletta da camino), un «siful da trii büs» (piffero troppo breve) o un «gabàss» in cui i muratori rimestino.

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Contadini al lavoro

Ma la goffaggine ha dei complici: l’intorpidito è «imbesüii», lo sfaticato «landanùm», «lifroch», «liscum» (che intrecci d’inverno in stalla corde di cartocci o carice palustre), «libranôs» da «Libera nos Domine» (Dio ne scampi). «Lôch» (da «loco», stupido) e «palanda» (da «hopalanda», veste da prostituta, aggravato in «palandrùm») adombrano spagnole disonestà dietro la pigrizia. Analoghi «scalabrìn» (malandrino) dal francese e, dal croato, «tépa» (violento).

Storicamente credulo è il «balabiôtt», sbrindellato popolano che festeggia in piazza la venuta di Napoleone liberatore, ballando attorno agli alberi della Libertà giacobina. Di un generale napoleonico, Billot, il dialetto assunse il nome ad insulto; quasi per vendetta a quell’illusione. E già ai dominatori spagnoli aveva sottratto offese come «tarlôch» o «gandùla» per dirli sciocchi. Il «laciòtt» lo è nell’innocenza di chi ancora succhi il latte materno. Presto ch’è tardi, chi riesca liquidatorio in tutto è un «pisimprésa», di fretta anche nella minzione.

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Anche i bimbi chini sulla terra: filastrocche e soprannomi sorridenti

Ai bimbi erano rivolti a basso voltaggio insulti in dialetto lombardo: «firfôll» (trottola), «masapiócc» (ammazzapidocchi che è anche il pollice), «sacranùm», «pirimpéstul», «scempioldu», «màrtul», «maa da coo» (emicrania). «Ragnéra» è il bambino che spazientisca i genitori come una ragnatela in viso, «sinsigùm» il cucciolo che ingaggi continue liti coi fratelli. «Barabìn» è il novello Barabba, «dasferlu» un discolo che sfilacci la pazienza di chi lo accudisce.

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Cinorrodi di rosa canina

Più adulti risuonano insulti in dialetto lombardo quali «gnöch» (cocciuto), «sgabèll» (terra-terra), «tambor» (tardo), «gross» (grezzo), «pinpàl» (peggiorato in «pinpalùm» alludendo a fisica grossolanità), «malmustus» (sgarbato), «tremacùa» (vigliacco), «cagadubi» (amletico), «safurmènt» o «maltrainsema» (arrangiato), «piugiatt» (pitocco), «grandùm» (tronfio), «patòsc» (fiacco), «bucascia» o «strascée» (volgare), «lögia da casott» (scrofa rinchiusa) e «menafrecc», che cala cioè brevi inverni di discordia o disagio. Il «gratacüu» è importuno come il cinorrodo della rosa canina, così detto in brianzolo: mangiato a crudo, provoca pruriti molesti per via dei semi numerosi.

Non mancano insulti in dialetto lombardo all’interrogativa retorica, domandando «ta busciat?» a chi lanci idee brusche come tappi di spumante; «sa sbasat?» a chi abbatte le stime sul proprio ingegno. Il taccagno («tignùm» o peggio «marsciùm») vuole indietro la pelle della pulce che gli hai levato: «vor indrée la pèl dal pulas».Tra ubriachi si barattavano perlopiù «balòris» e «buiùm», forse da «bói» (abbaiare). Ma il più felice epiteto d’inutilità resta «barlafüs»: la minima base dove le filatrici prillavano il fuso, che poteva girare anche senza. Era insomma accessorio come la persona che ne riscuota il titolo.

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Donne al fuso

T e R arrotano insulti in dialetto lombardo come «ròdach» (vendicativo) o «stròlach» (zingaro da «astrologo»), esteso a chiunque vesta trasandato. «Patôla» chiama, insieme all’ingenuo, il vuoto sul retro dei calzoni. Chi lo mostri è «scasii», termine d’intersezione tra miseria e gracilità. Ha la «crapa dala Baratöla» (Angela Maria Beretta, celebre nana di Trezzo sull’Adda) chi porti i capelli scarmigliati. Il «gôs» o «racanatt» eccede nel bere, nell’arrotondarsi la pancia il «tanasciott». Interviene al momento meno opportuno chi venga congedato con «Scarliga merloss ca l’è menga ‘l to osc».

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Il dialetto: più che parole, echi di cortili e osterie?

Echeggiano insulti anche dalla cucina, dove il raffinato è «spisiee» (farmacista). L’erba «betoniga» nomina la donna invadente. «Ramulàss» è la rapa, insipida e invisibile come la persona che ne sopporti l’appellativo. «Büséca» (trippa), «cudigùm» (cotica), «grass da rost» (grasso d’arrosto), «limum» (limone) e «cagiada» (cagliata) sono insulti in dialetto lombardo che accusano insignificanza: pallore fisico o morale. Sul latino «bis luridus», due volte pallido, il dialetto ricalca tra l’altro «balurdùm» (capogiro) e quindi «balurt». Svanito. Dell’italiano arcaico «malnato» gli insulti in dialetto lombardo ritrovano «malnàtt», smorzato però a sorridente offesa come «baloss», «tatùm» o «giubiòo» che ammettono complicità con l’insultato. La stessa sottesa a «l’è da catà!»: è cioè da raccogliere.

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Organo dipinto a Baggio, secondo la tradizione

«Taca i picai ai scirés» (attacca i piccioli alle ciliegie) chi insegni banalità all’ingenuo, che dovrebbe scendere dal «murum» (gelso). Il noioso è un «tödi», eco di «tedio», o un «runòbis» monocorde e prevedibile come la formula «Ora pro nobis» in risposta alle litanie. Si consiglia al seccatore di andarsene a drizzare «banis» (confetti) o a «pertegà» (bacchiare) le noci che, mature, cascherebbero da loro. Può altrimenti scegliere di suonare l’organo a BaggioBacc»), nella cui chiesa pare fosse solo dipinto o rincasare per via più lunga e insidiosa, lungo il fiume: «Va’ a cà da l’argin!».

Quasi ogni vocabolo dei campi ha potenziale ingiurioso. Lo sprovveduto è «pulastar» (pollastro) o «cucumar» (cetriolo); «sciatum» chi arraffi con voracità di rospo («sciatt»). Il furbastro è «animàl da foss sensa cua», oscura bestia di roggia. L’ubriaco, il sudicio lo sono «cum’è ‘n ratt» (topo, totemico quasi). Il titolo può aggravarsi in «ratùm», «ratunasc» persino. E le caricature così concluse sono totali. Gridare «sciurass!» contorce sul viso un disprezzo giacobino per lo sciatto riccone, che l’italiano chiama appena «signorotto».

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10 Responses

  1. Alessandro Pozzi

    Mi piace, belle anche le foto. Dove le trovi ?

    • Cristian Bonomi

      Ciao Sandro! Alcune foto sono dalla rete, perlopiù di ambito veneto. Conosco il tuo interesse per le tradizioni contadine del nostro dintorno. Ne pubblico presto un affondo. Un saluto, c.

  2. molto interessante, sono tornata indietro a quando ero bambina e sentivo queste parole in dialetto dette da mio papà
    complimenti, ciao Alba Mazza la tusa da Giusapin di Giuanun

    • Cristian Bonomi

      Grazie Alba. Il dialetto sa come suscitare i ricordi più sorridenti. A presto, c.

  3. ciao Cristian, molto belle le tue ricerche, sono piacevolissime da leggere!!!!! Bravo! per il dialetto la penso uguale ad Alba,. troppo simpatiche le parole dialettali. le foto che hai esposto sono molto interessanti, mi piacerebbe sapere se le foto della salumeria è di trezzo e anche le ragazze che lavorano al tombolo. per la storia della famiglia di mio padre ti ho già ringraziato via mail normale. ciao Daniela

    • Cristian Bonomi

      Ciao Daniela, e grazie per le passate e le venture ricerche insieme. Il negozio è di Crespi d’Adda (ASCAL), le donne al tombolo sono immortalate in casa Bassi (archivio privato). Di entrambe ho compilato didascalia ma non compare in slideshow. Un saluto, c.

  4. Francesco Cavalli

    io credo che “malmustus”, più che sgarbato significhi mai contento; però questo è il significato che si usava a casa mia, he però era di origine lariana.

    • Cristian Bonomi

      Grazie Francesco! In effetti, è una sfumatura che avverto anch’io, malgrado spesso il dialetto abbia usi più che locali, “domestici” quasi e privati.

  5. Sono d’accordo con Francesco Cavalli.Sono del 1945 di Milano e mia mamma me lo diceva sempre, perchè non sorridevo mai, davo l’impressione di non essere mai contenta

  6. Bello questo sito. Io sono bergamasca, mi pare di ricordare malmustus come sinonimo di sgarbato. Sbaglio?

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