In un’intervista del 2010, il vaverino Joseph Fumagalli: deportato che raccontò dopo 55 anni il suo “Diario di una prigionia”.
85 anni, vista appannata ma voce tonante. Al civico 5 di via Caduti in Vaprio, dove abita, vuole gli si dia del tu Giuseppe Fumagalli detto «Joseph». «Della mia prigionia dal ’43 al ‘45 non ho fatto parola per 54 anni e 6 mesi – spiega – temevo l’incredulità finché, incoraggiato dall’ex-sindaco Vincenzo Agliati, non ho registrato e poi trascritto i miei diari di deportato». Lo ha fatto con l’aiuto di Maria Grazia e dell’altra figlia cui, d’accordo con la moglie Caterina Maggioni, diede il nome inciso sulla gavetta che raccolse in Germania: Silvia. Il libro, «Diario di una Prigionia», ha così prima edizione Bama nel 2001 (per l’acquisto a scopo benefico, qui).
Nasce a Terno d’Isola il 12 giugno 1924, Joseph, e ha 13 anni quando papà Francesco trasloca la famiglia (9 fratelli in tutto) al Monasterolo di Vaprio d’Adda. Il giovane lavora in officina mentre per il paese affiggono un manifesto che lo destina militare di Leva ad Udine, il 22 agosto 1943. «Contavo già 3 fratelli maggiori al fronte – ricorda Fumagalli – partii perché potesse rientrare Piero, che aveva una figlia». Pedalò fino a Monza dove i bombardamenti avevano interrotto i treni per Lambrate, raggiunta a piedi con altre due reclute. A Udine lo fecero marciare qualche giorno ma nemmeno ci fu il tempo per il giuramento: l’Armistizio sbandò tutti in cerca di vestiti civili. Ne chiedeva a delle contadine quando alcuni Tedeschi in calzoni corti gli puntarono il mitra per 2 ore contro un muro: «E lì è partita la sinfonia – sospira Joseph, autore de Diario di una Prigionia – ci misero, 60 in ogni vagone, su una tradotta per chissà dove».
Il capostazione Gino Driussi sussurrò che i prigionieri gettassero a terra dei messaggi. Li avrebbe spediti lui alle famiglie. «Sperate sempre» aggiunse il ferroviere alle righe di Fumagalli che recapitò al Monasterolo: per 6 mesi, i suoi cari non seppero altro. Viaggiò 4 giorni e altrettante notti mangiando gallette alpine e sollevandosi a vicenda coi compagni per fare i bisogni dal reticolo del finestrino. Era nero e inacidito il pane gettatogli dei Tedeschi, che lo scaricarono a Thorn (in Polonia) dove una donna venne presa a calci mentre gli porgeva dell’acqua. Fu la prima cosa che vide mentre gli scrivevano 39848 sulla piastrina.
«Per i cavi elettrici scavavo nella neve corridoi di 90 per 40 cm – rammenta l’autore de Diario di una Prigionia – anche se la fame ci consumava». L’amico Mario Trabucchi venne malmenato a sangue perché si gettò su un avanzo di verza. Tutti cercavano pelli di patata nell’immondizia. I Tedeschi tracciavano una riga accanto alla fila in cui Joseph aspettava, anche per 6 ore, una zuppa con foglie di barbabietola e persino carbone. «Sparavano per gioco ai prigionieri che, spinti, valicassero quella linea». Fumagalli usava un pezzo di maschera antigas per ricevere la brodaglia. Dalla rabbia, aveva lanciato via la gavetta a Udine. «Oggi è un mese che sono a Thorn – dice il primo di 4 taccuini compilati con una stilografica rubatagli e poi con un mozzicone di matita – spero questo nome mi porti fortuna perché ci sono le prime lettere della parola “Tornerò”».
I bimbi gli lanciavano palle di neve al grido di «Badoglio!» quando marciava verso i fossati da scavare: gli si aprirono piaghe sulle cosce e all’inguine, i piedi si gonfiarono. Gli internati russi, lì da più tempo, gli additavano la terra smossa sopra i loro compagni sepolti. A Joseph alleviavano la paura solo i pacchi e le notizie spediti dalla madre e dalla sorella Piera, che volle nella bara parte di quelle lettere.
Sistemare binari sotto le bombe, far brillare le mine, seppellire cavalli
«Forse perché non eravamo abituati al freddo polacco – dice il superstite – noi Italiani fummo trasferiti in Renania coi Francesi». Eravamo stipati in un deposito di carbone per le ferrovie, di cui rassettavamo i binari ancora sotto le bombe. Un soldato controllava che le rotaie fossero in asse col binocolo mentre una donna in divisa soffiava nella tromba l’arrivo del treno. «Ci scansavamo di corsa – continua Joseph – ma un amico ci rimise comunque una gamba». Le guardie fuggirono all’avvicinarsi delle cannonate americane, e alcuni compagni di Joseph scavarono un rifugio in collina: lui rimase al deposito da dove, una notte, i Tedeschi lo sospinsero (torcia e mitra alla mano) fino al vagone che doveva deportarlo. Di nuovo. Scappò con altri 6, prima lungo bui binari e controcorrente poi sulla strada che i Tedeschi battevano in ritirata. Un ferroviere li nascose la notte in cantina, offrendo cibo che la diffidenza credeva avvelenato.
Anche il loro aguzzino più feroce (detto «la Morte in Vacanza») gli diede in fuga uno zaino sporco di sangue e permise che cercasse cibo: «Ieri ero io – disse – oggi sei tu». Insofferente al coprifuoco, Joseph uscì un mattino prima dell’alba per lavare il viso nell’acqua che gli riflesse il primo Italo-americano: «Lui parlava inglese a me che gli rivolgevo il tedesco, e capì poi che eravamo Italiani: non faceva che ripetere “Paisà”. In fuga, avevo messo le mani al collo di un ferroviere, minacciandolo, e in quei giorni quasi rubai un vitello da una cascina. La fame, le minacce ci riducevano persino a picchiare chi per quel giorno avesse il compito di trovare cibo e non ci riuscisse». Sì unì agli Americani per cui faceva brillare le mine finché un incidenti non uccise tre persone, sotterrandone vive altrettante. Poi lo misero a seppellire i cavalli morti. Con gli amici, svolse un rotolo di velluto pregiato sotto ai piedi delle prigioniere ebree liberate: per farle sorridere.
«Passai ad un commando di Afro-americani che mancava solo mi portassero in braccio. Alla fine, una domenica, salii senza biglietto su un treno per l’Italia, e sette giorni dopo arrivai a Vaprio dove riabbracciare i miei cari fu una gioia che è inutile tentare di descrivere». Così conclude l’uomo, chiudendo il suo «Diario di una Prigionia». Fece tre promesse a sé stesso durante la deportazione. «Andai a piedi fino al santuario di Caravaggio, feci recitare una messa in quello carmelitano di Concesa e – soprattutto – mi ripromisi che non avrei più obbedito a nessuno». Quando pigliava una multa, toccava a suo fratello o a sua moglie andarla a pagare.
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Ricordare è una formare di Resistenza. Reduce della Deportazione, il combattente Joseph Fumagalli di Vaprio ci ha lasciato il dovere di ricordare la sua forza e la sua dolcezza nella notte di martedì, 14 giugno 2016. Lo conobbi per questa intervista, concessa tra commozione e ironie, sfogliando il suo «Diario di una Prigionia». I funerali saranno celebrati a Vaprio venerdì 17 giugno, alle 14.30.
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