Sfidò la peste il carmelitano da Piacenza le cui ossa sono state conservate dal 2002 presso il santuario di Concesa: Gerolamo di San Bartolomeo è il frate che Piacenza chiamò santo.
Il 20 dicembre 2002 una teca giunse da Piacenza al santuario carmelitano di Concesa. Venne riposta nella cripta, proprio sotto l’altare maggiore. Di vetro e legno dorato, l’urna poggia a terra. Il teschio è composto sopra il resto dell’ossame. I suoi occhi ti fissano, invisibili. Un breve femore, le vaste orbite disabitate, il setto acuto, la mascella dei digiuni bastano.
Fra Girolamo di San Bartolomeo è minuto. La geometria delle guance scarne conduce a occhi intensi. Tace la sua malattia lungo l’estate piacentina del 1667. Dopo il consueto giro di elemosina, rientra in clausura il carmelitano che non studiò teologia. Indossa il saio senza cappa bianca, perché è solo un fratello donato. Eppure, ascolta la messa che non può officiare in una chiesa che s’è nutrita della sua questua quotidiana. Ha consumato i sandali per scovare a Piacenza benefattori vanesi o timorati muratori, che lavorassero come si prega: aspettando una ricompensa che non si esige. Il tempio carmelitano di Santa Teresa in Piacenza era sorto così.
Fra Girolamo aveva meditato la fatica di ogni ciottolo raccolto dal vicino Trebbia. All’epoca ammonticchiava sulla riva i sassi da trasportare alla fabbrica della santa. Cercava un carro su cui caricarli, quando un contadino prese le pietre per sé e ci costruì un tugurio. Il frate lo seppe qualche giorno dopo, e fu l’ira ad affrettarlo alla capanna. «Sassi – urlò – lasciate la casa cui non appartenete». E il cadente abituro rovinò. Benché fosse miracoloso che la costruzione tenesse, si gridò al miracolo perché Fra Girolamo le aveva ordinato di cascare. Ma lui lasciava ogni commento nel silenzio.
Capitò che la trave donata per reggere il tetto della chiesa non fosse lunga a sufficienza. Il frate guardava interrogativo il legno, finché la fede non lo decise. Slegò le braccia conserte per cingerne la trave: e la tirò. Non si poteva fare cosa più semplice, o più sciocca. Leggerlo nelle cronache offende la ragione, ma il tronco si allungò fino a poggiare sulla muratura. Fra Girolamo confidava nell’amicizia di Dio e, ignorando il galateo teologico, Gli domandava forse favori irriverenti? Lo ripescò da tale pensiero la fine della funzione. Alzarsi dall’inginocchiatoio gli insegnò che al dolore non ci si abitua.Il sudore incendiava le ferite che da due mesi gli segnavano le spalle come a Gesù sulla via. Si sarebbe messo a letto solo per obbedienza al priore, Padre Eliseo di Sant’Elia.
Questi, intuite le condizioni del frate, gli disse che partiva per Parma. Doveva. E gli comandava di pregare Iddio che lo lasciasse nel mondo fino al suo rientro. Fra Girolamo pregò e attese in clausura, là dove giovane preferiva stare perché i Carmelitani Scalzi erano poco noti e ancora si diffidava delle loro cappe spagnole. Solo quando gli fu affidata la questua, i cittadini lo conobbero per la parola ruvida e la ruvida mano.
Girolamo era nato piemontese a Maione, nel 1595, da gente povera: Francesco Gaudenzi e Maria Mattaschi, che lo chiamarono Bartolomeo finché non vestì l’abito carmelitano a Cremona nel 1620. Dieci anni dopo la peste lo affratellava ai piacentini che curò, ammalandosi accanto a Padre Sebastiano della Purificazione. Il morbo mollò la presa, lasciandogli la salute pericolante. Ma Fra Girolamo s’immergeva comunque in acque invernali, cui levava il primo ghiaccio, o camminava tra i rovi fino a seminare orme di sangue. In quel corpo mortificato la sua anima stava come in trincea.
Nove giorni aspettò il priore contro i due previsti. Spirò obbediente tra le sue braccia, all’1.00 del 2 agosto 1667, ripetendo: «Miserere mei Domine». In mano gli misero la croce di legno scuro e liscio che ancora veglia sulle sue ossa. Durante le esequie, i piacentini trattenuti dalle guardie baciavano i piedi a Fra Girolamo e gli laceravano reliquie di tonaca. La sua eloquenza era il silenzio, la pazienza il suo quotidiano miracolo. Umile ha riposato le sue ossa nella cripta dell’ignara Concesa.
Fonti:
– A raccontarmi di frate Gerolamo di San Bartolomeo fu padre Gerardo Bongioanni o.c.d., con cui tradussi dal latino una biografia del carmelitano le cui ossa erano custodite a Concesa.
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