Leggere i vermi nella medicina contadina

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Angela “‘Mericana”
Leggere i vermi era il rito dalle mille varianti praticato dalle donne del segno: i segreti della medicina popolare, la demoiatrica

Le medicone che sapevano leggere i vermi. A Trezzo, una delle donne del segno più riverite era Angela «’Mericana». Imboccate la «Cà Bianca» (via Dante) fino al «Sentirum» (via Trento e Trieste) e svoltate a destra in «Stalum» (vicolo Chiuso): qui abitava la «’Mericana», guaritrice nota all’anagrafe come Angela Teresa Galli (1890-1972). Accanto le apriva i battenti la taverna di «Rosa da l’Ost», dove i contadini concludevano in brindisi i loro accordi. Era, come la Valverde, un’irrequieta contrada trezzese. Ce lo assicurava Giuseppe Galli, già presidente della Pro Loco nato proprio in vicolo Chiuso: «Se a Tress gh’è ‘n palandrum – scandiva solennemente – l’è in Balverda (rione paesano in discesa verso l’Adda) o in Stalum».

Angela ci ritornò nel 1923, dopo i quaranta giorni di traversata che la riconsegnavano a Trezzo, reduce dell’Argentina dove aveva raggiunto il marito Guido Tinelli con la figlia Carolina, nata a Trezzo nel 1913. Luigi nacque invece a La Plata, al pari della sorella minore Josèpa, cui si aggiunse la quartogenita Delia. Guido, fornaciaio migrante, si impiegò presso la fornace che i Gaggero siciliani avevano impiantato a Ringuelet: fuori città verso la Pampa. La sera, nelle mani grosse con cui impastava mattoni, sfogliava libri raccontati anche ai compagni di fatica: accanto alla sua branda i Promessi Sposi, Guerra e Pace, Le mie prigioni. Quando si assestò economicamente, diventando responsabile della produzione, la famiglia lo raggiunse da Trezzo. I Gaggero persero il figlio Candido per la zoccolata infertagli da uno dei cavalli, impegnati a rimestare la terra da mattone: e ribattezzarono col nome del defunto il primogenito maschio dei Tinelli, Luigi detto da allora «Candido».

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“Scienza e Carità” di Pablo Picasso

Secondo i nipoti, Angela Galli detta «’Mericana» ricevette il Segno da un santone argentino di origine meticce. «Si chiamava Quanito – precisa Pierluigi Pirola, geometra – e rifuse intero e solo a mia nonna il dono, prima di spirare in pace». L’uomo viveva al limite con la Pampa e aveva egli stesso natura liminare: tra uomo e bestia, pazzia e illuminazione. Angela lo accudiva modestamente, ripulendo il tugurio o cuocendogli i cibi, che quello mangiava altrimenti crudi. Toccò a lei il dono guaritore: quel Segno, che Quanito cinquantenne doveva consegnare prima di morire. Per tradizione, la santoneria non consente a chi detiene il Dono di spirare prima che l’abbiano affidato: il detentore agonizza perpetuamente, finché non risolve la sua successione. Rimpatriata, Angela attuò gli insegnamenti, ricevuti, quando non era impegnata allo stabilimento Crespi. Sapeva “segnare” ovvero leggere i vermi anche agli adulti, spezzando (senza forbice) un tratto di filo bianco («raff») da un rocchetto arrotolato su legno. Mai da una spola.  Reggendolo, muoveva una croce davanti al paziente. Per alcuni anziani, il numero e la misura dei pezzi in cui divideva il filo era commisurato all’età del malato: ma non pare fosse così. I tratti da rocchetto erano immersi poi in un bicchiere d’acqua, pregando sommessamente. Se i fili si contorcevano, era a imitazione dei parassiti che infestavano il malato. Dopo la lettura, i tratti da rocchetto venivano gettati nel camino invernale o d’estate nei tombino: non potevano restare in casa. Pur con lievi variabili, il rito di leggere i vermi è molto diffuso. A Brignano Gera d’Adda (Bg) lo spago misurava l’altezza del paziente. A Martinengo (Bg) era tagliato anche con una forbice, come racconta Ermanno Olmi nel film «L’Albero degli Zoccoli» (1978). In genere la guaritrice lo arrotolava sulle tre dita centrali, recidendolo sotto l’anulare e sopra l’indice. Vicino Savona se ne bagnavano i pezzi, poi gettati alle fiamme, in un piatto d’acqua. Non in un bicchiere.

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Una scena da “L’albero degli zoccoli”

Anche i rimedi erano ramificati: Angela Galli prescriveva al bimbo per tre giorni una quotidiana tazzina di camomilla amara, accompagnata da tre «Pater Ave Gloria allo Spirito Santo» e corretta con altrettante gocce di Fernet. Di più se il sofferente era adulto. La sovrana cura bergamasca era l’aglio, ancora adottato dai veterinari come vermifugo equino. Se ne componevano collane con un numero dispari di spicchi, poi imposte ai bambini. Pare invece sporadico l’impiego di ruta o prezzemolo. La Galli poteva segnare i vermi anche a bimbi assenti; alle volte gliene recavano un indumento, su cui strofinare il filo. A contorno di queste “letture” risolveva slogature, torcicolli o foruncoli spurganti («bignùn») dopo averli benedetti; e non esigeva quello che le lasciavano in cambio: prese di tabacco o spiccioli. Caramelle persino. Fu anzi lei a rinnegare due seguaci che prestavano solo cure mercenarie. «Mia nonna spendeva la moneta dei pazienti in candele per la parrocchia – ricorda il nipote Pierluigi Pirola – o la offriva ai Carmelitani di Concesa».

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Josèpa Americana con Angela Maria Beretta detta Baratola

Angela placava le bronchiti tramite spalmature pettorali («vungiadür») di sugna, isolate con carta da zucchero. Seguitò tali pratiche la figlia Josépa Tinelli, nata in Argentina e chiamata dai trezzesi «Giusefa» o anch’ella «’Mericana». Non pare avesse il Segno dalla madre morente, sul cui comò il nipote Carlo Ortelli ricorda una scatolina di legno: «quasi una piccola bara». In effetti, Josépa non disse mai che la burbera Donna le concedesse il dono. Ma due anni dopo volle leggere i vermi alla cagionevole nipotina, riprendendo la missione materna. Entrambe sostenevano che a tutti dormono in pancia i vermi della morte: spaventi o traumi ne anticipano il risveglio, sciogliendoli per il corpo di cui alla fine intasano le vie respiratorie. Una teoria scioccante, forse suggestionata dalla medicina antica ma dimenticata insieme al Segno che resta una delle più remote e sincretiche tradizioni in seno alla medicina contadina: streghe, medicone afro-americane e donne erboriste riannodavano sotto quel nome secoli di conforto a malati, che non potevano ricorrere alla scienza ufficiale.

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