Dall’archivio carmelitano di Concesa, il santuario ai piedi dell’eternità, riaffiora il memoria che nel 1917 padre Telesforo ebbe ordine di compilare dal padre Provinciale: per fare memoria delle soppressioni sofferte ma anche del quotidiano vivere all’ombra del chiostro.
Risale al 1917 il memoriale vergato nel convento carmelitano di Concesa da Padre Telesforo dei Santi Gioachino ed Anna (1841-1933). A questo sacerdote, il cui nome significa «colui che porta la croce», toccò quella della memoria. Le sue righe, trascritte nel 1981 da Padre Samuele, raccontano la soppressione (effettiva o rischiata) di alcuni conventi ad opera del neonato Regno d’Italia: quelli di Urbino, Ferrara, Piacenza e Concesa. Qui nel 1860 Telesforo bussò novizio al santuario carmelitano che Padre Gianluigi di Santa Teresa stava ancora risollevando dall’abolizione napoleonica. Per anni il prevosto di Concesa nascose le chiavi del convento sotto la cenere del suo camino, finché i carmelitani non vennero a riprendersele. Fu il conte Luigi Confalonieri Strattman a ridonare loro il complesso.
Partecipò ai restauri della chiesa anche Telesforo, che la descrive irriconoscibile. La prima cappella a sinistra, entrando, era dedicata a San Carlo Borromeo. Esibiva l’originaria cassa lignea, foderata di seta cremisi, in cui ne fu composta la salma. E sull’altare era la croce processionale in cui Borromeo portò il Santo Chiodo per le vie di Milano durante la peste (1576). Il legno è oggi venerato nella prepositurale di Trezzo, i cui parrocchiani le attribuirono nel 1836 la fine del colera, che aveva mietuto 43 morti. Intanto Filippo Bellazzi rilevò il santuario soppresso da Napoleone, convertendolo in setificio; e della seta che foderava la cassa di San Carlo rivestì certe sue sedie. Nella spoglia cappella i Padri rientrati alloggiarono per qualche tempo una tela, commissionata al pittore Bertazzoni dalla madre di Telesforo per la sua professione di fede.
Nel 1861 Padre Gianluigi decise il restauro della cripta sepolcrale, collocata sotto l’abside. Alle due camere destinate ai defunti carmelitani si accede oggi per la scalinata aperta allora. Fu invece sigillato l’attiguo sepolcro dove riposano i Simonetta, nipoti di Cesare Monti, cardinale fautore del santuario concesino. Padre Telesforo vi calò, contando una decina di scalini: «subito frugai ma non vidi altro che molti teschi – scrive – brandelli di seta d’ogni colore, una croce piccola d’ebano e un vaso vuoto che dicesi contenesse i precordi del cardinale». In effetti Monti, che largì al santuario le due citate reliquie, dispose per testamento d’essere tumulato nell’amata Concesa. Si opposero però i canonici milanesi che seppellirono in duomo (davanti alla Madonna dell’Albero) il loro cardinale. Se il santuario carmelitano ne ricevesse almeno i precordi (cuore e polmoni) resta dubbio. Dai Monti, tramite la linea Simonetta-Trotti, discende tra l’altro la milanese famiglia Bassi da sempre legata a Trezzo.
Nel 1874 Telesforo ammira con Padre Gianluigi i compiuti lavori di ripristino, e commenta: «la chiesa è vestita d’una ricca veste ma, se abbasso gli occhi, vedo che ha scarpe da contadina». La battuta impensierì il rifondatore, che in breve rinnovò il pavimento. Si provvidero anche nuovi tendaggi ma, poiché rassomigliavano le tinte dell’odiata bandiera austriaca, furono subito levati. Il regio decreto del 1866 adombrò la nuova soppressione, scongiurata dal carmelitano mons. Carlo Mascaretti. Egli acquistò il convento carmelitano, salvandolo dalla confisca che persino il sindaco di Concesa (Antonio Galbiati) avversò, attento al proficuo afflusso in paese dei pellegrini. Telesforo vi concluse perciò il noviziato.
La sua memoria cesella spesso gustosi episodi quotidiani. Nel 1861 il genovese Padre Angelo risolse di chiudere, davanti alla chiesa, l’avello dell’acqua miracolosa che allora vi sgorgava più a monte e abbondante. Ma le donne di Concesa insorsero, ottenendo la riapertura della devota sorgente. Temendo di tardare alla funzione, un giorno Telesforo e altri novizi tagliarono per la tenuta Castelbarco, confinante con gli orti carmelitani. Se ne lamentò il conte proprietario, cui i giovani dovettero delle scuse.
Il racconto più sconcertante risale al 1862. Giacomino, frate carmelitano addetto alla questua del frumento, visitava una cascina della zona. Scorse un quadro di Vittorio Emanuele II, davanti a cui commentò candidamente: «Sarebbe meglio che in quella cornice vi fosse l’immagine della Madonna o di qualche Santo». Un delatore fece rapporto al sindaco, che riferì al prefetto di Milano. Ne giunse a Concesa un mandato d’arresto per il povero frate, che riparò a casa sua. S’inginocchiava nottetempo davanti al santuario in attesa di potervi rientrare. La sua devozione non s’era incrinata. Fu infine reintegrato a Ferrara, del cui convento divenne cuoco.
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