Albino Motta da Bellusco lascia il paese in divisa per raggiungere le trincee della Prima Guerra Mondiale, dove «la morte lo coronò d’alloro».
Albino Motta, polvere e gloria. Il 29 marzo 1916 l’artiglieria austriaca cerca nel mirino la quota 240 del Monte Podgora, dove resistono i fanti italiani con le mostrine gialle dell’11° Reggimento «Casale». «Coraggio, giovinotti! – li esorta il Capitano Giulio Bianchi – I Gialli del Podgora non indietreggiano mai. Fuoco feroce; ma evitate sciupio di munizioni!». Il camminamento per rifornire di proiettili la trincea, da Lucinico (GO), è tanto esposto al tiro nemico che ogni rifornimento lamenta perdite gravi.
Il Caporale Albino Motta da Bellusco si offre allora volontario per scortare le squadre nel trasporto delle munizioni, incoraggiando i compagni d’arme. Ma resta ferito a morte, «lasciando la sua florida esistenza sul campo della gloria». Così riferisce il Capitano Bianchi, proponendo di intitolare al fante belluschese il camminamento «dove colpito cadde». Nel 1920 l’ufficiale visita il coadiutore di Bellusco, don Luigi Tarchini, istruendo una domanda per ricompensa al valore militare. Sul petto della vedova Annetta Spada (1886-1971) viene appuntata l’onorificenza in bronzo col nome di Albino. Accanto, la croce al merito di guerra e la medaglia commemorativa «coniata nel bronzo nemico», rifondendo cioè l’artiglieria austriaca.
La vittoria del Noi sull’io. Di Bellusco, Luigi Motta è un contadino illetterato, che china la giornata su terre non sue. In via del Castello al civico 3 gli nasce dalla moglie Maria Radaelli il figlio Albino, l’8 ottobre 1884; e l’uomo nemmeno sa firmare l’atto di nascita. Eppure, c’è qualcosa di grande in questa pochezza. Il bimbo cresce a piedi scalzi nei campi appena dissodati: immagina il mondo oltre il capolinea della tranvia «Gamba de Lègn», che allunga i binari a Bellusco dal 1890. Il piccolo paese cui appartiene è la sua famiglia grande.
Albino Motta nella memoria domestica e collettiva
«Solo questo senso di appartenenza alla comunità spiega il gesto eroico del Caporale Albino Motta – commenta Carlo Invernizzi (1927), Presidente Emerito della locale sezione “Combattenti e Reduci“ – Ricordo la commossa fierezza dei Belluschesi che raccontavano la Grande Guerra, dicendo “Noi” e non “io”. Coniugavano civicamente i verbi alla prima persona plurale, anziché ritrarsi ciascuno nel proprio privato. Un uomo solo è solo un uomo, se non condivide un’appartenenza con gli altri». Albino comprende a fatica la retorica patriottica o le cause della guerra che lo arruola. Nel fango delle trincee conosce le imprecazioni per il freddo e la morte per davvero.
Eppure, il Caporale da Bellusco si offre volontario a vantaggio dei suoi commilitoni. «Era buono» spiega la nipote Albina Motta (1939), invitata dall’Amministrazione Comunale a raccontare le sorti del nonno, per i cento anni dalla Grande Guerra. Tra 1915 e 1918 Albino resta tra i pochissimi caduti belluschesi cui si tributi un’onorificenza sul campo ma, nel suo sacrificio, c’è l’innocenza di tutti gli Italiani colpiti dal conflitto mondiale.
«In casa, lo ricordavano in silenzio – prosegue Albina, che porta orgogliosamente il nome del nonno – Più che a noi, nonna citava Albino nelle preghiere». Del resto, il Caporale Motta è uomo devoto che, in parrocchia, insegna «Dutrina» (Catechismo) ai ragazzi. Le sue spoglie vengono composte nel Tempio Ossario di Udine, al progressivo 13148. La vedova Annetta cerca invano la tomba del marito nei sacrari militari, finché Carlo Parolini «Tabachétt» da Bellusco non visita quello udinese, trovandola.
Malgrado l’età, la donna raggiunge ogni anno quel luogo, accompagnata dai figli Maria (Classe 1910) e Luigi (Classe 1911). Entrambi nascono al civico 1 di via Porta Ornago, l’odierna via Amilcare Ponchielli, dove i Motta abitano un lato e i Parolini l’altro. Da qui, i due bimbi abbracciano il papà Caporale che parte in divisa. Non sanno che quegli abbracci sono addii.
Un figlio che perda il genitore si dice «orfano» ma come si dice il genitore che perda un figlio? Il suo dolore è impronunciabile. Oltre ai 25 ragazzi belluschesi cui la Grande Guerra toglie il padre, più di 40 sono le pensioni invocate per sostenere madri o mogli senza più un uomo in casa, abile al lavoro. Al disbrigo burocratico di queste urgenze un Comitato d’Assistenza Civile coinvolge specie il sindaco marchese Marco Cornaggia, il parroco don Carlo Diotti e don Luigi Tarchini coadiutore.
Si posano cippi col nome di un caduto belluschese sotto i singoli pini che, fino al 1944, costeggiano viale Rimembranze. Il primo ricorda Albino Motta, cui viene intitolata anche la prima classe delle Scuole Elementari; la seconda a Ercole Bordogna, lui pure Belluschese caduto nel 1916. Il piccolo paese che è una famiglia grande rialza così lo sguardo dal lutto.
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«Il rifornimento delle munizioni, depositate a breve retrodistanza dalla prima linea A (Trincerone), riusciva di grave pericolo per il furioso tiro d’interdizione delle artiglierie nemiche.. Il riparto era provvisto di pochissimi graduati; il Caporale Albino Motta, sprezzante del pericolo ma conscio solamente del sentimento di compiere il proprio dovere con un importante servizio, volontariamente si offerse per l’accompagnamento delle varie squadre di trasporto munizioni, incoraggiandole colle parole e coll’esempio e rimanendo mortalmente ferito durante tale volontario servizio». (1920, Al Regio Ministero della Guerra – Reclamo per ricompensa al valore).
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Per le fonti, ringrazio specie l’assessore Mauro Colombo, il dott. Carlo Invernizzi e Albina Motta.
Pubblicato nel periodico comunale Bellusco Informa, Settembre 2015.
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