Il reduce intervistato: Natale Colombo “Masìn”

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Reduce della Seconda Guerra Mondiale, Natale Colombo “Masìn” (1911-2004) ci mise tre pomeriggi fitti per raccontarmi la sua militanza nel dialetto pirotecnico, di cui provo a restituire il colore in Italiano. Non so con quanta riuscita. Sorrido ancora al ricordo delle sue espressioni da reduce nostrano: “pisà in sol sò” (pisciare sul proprio, detto di chi abbia proprietà); “cuntent cum’è i merli” (ingenuo come un merlo); “‘ndavan dent da ché e vignivan fora da là” (circa i Tedeschi che irrompevano con brutalità negli edifici privati); “animal da fos sansa cua” (oscura bestia di roggia, cui paragonava certi ufficiali furbastri); “tandarot” (i novellini, tenere carni da cannone).

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“I generi di conforto del Masin durante la prigionia” (Giovanni Brambilla)
Anche un reduce nasce bambino

Qualche generazione fa i Trezzesi nascevano contadini e morivano con la vanga in mano nel vano tentativo di evadere la povertà che, con la vanga, avevano ereditato. Non perché la nostra terra sia ingrata, ma perché ingrata era la maggior parte dei latifondisti che la affittavano. Fissavano loro i prezzi a cui comprare, dai propri fittavoli, i bachi da seta e il poco frumento coltivato e mondato a mano. Affidavano inoltre le loro terre a fattori che vegliavano sulla retribuzione dei contadini, affinché fosse sempre ingiusta. Quello preposto ai terreni tra San Benedetto e Belvedere pare fosse fra i fattori più zelanti: e così a Colombo Angelo, che bisticciava ogni giorno con lui, toccò abbandonare il mestiere del contadino. Ovvero quello del povero. Gli si schiudevano, a quel punto, due alternative. Poteva rimboccarsi le maniche per impastare a mano la terra dei mattoni, in fornace, oppure emigrare. Rimetterci le mani per pochi quattrini non era più redditizio che impugnare la vanga. E perciò Angelo partì.

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Cascina Belvedere a Trezzo

Partì per il Piemonte, dove sterrò il Canale Cavour (1863-66); proseguì fino al Moncenisio, per traforarne la galleria; e approdò infine a Genova, per rassettarci il porto: lui che già aveva sudato in cava a Trezzo come «picott», lo scalpellino che per primo sbozza i blocchi di ceppo. A Genova i lavoratori più abili venivano imbarcati per l’America. Fu scelto anche Angelo, che però randagiava ormai da dieci anni e preferì lasciare a Genova un paio di compaesani per tornarsene a Trezzo. Ci tornò a piedi, con una cariola. Nella cariola c’era una lanterna, un piccone e 20 marenghi. Che a casa ci sia arrivato illeso lui, non ci stupisce. Ci stupisce che ci siano arrivati illesi i marenghi: anche perché allora le boscaglie erano habitat d’elezione per i briganti. Tant’è che i fornitori, e per primi gli Zaccaria trezzesi, pare mettessero un pedaggio nelle mani di quei masnadieri per evitare che fossero i masnadieri a mettere le mani su di loro.

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Il candeggio Zaccaria “Al Prato” lungo l’Adda

Intanto la famiglia di Angelo si era accasata a cascina Belvedere, dal suocero Bonomi Damaso (1816-1893). Il carisma di quest’ultimo valse a tutta la discendenza dei Colombo, fino ad allora detti «Puti», il soprannome «Masìn»: sapeva leggere Damaso, tanto da avere due stai (in cui si misurava la granaglia) colmi di libri. Ed era un totem di moralità capace di gettare lunghe ombre. Alla figlia nubile Teresa, rimasta incinta, diede 20 lire perché portasse altrove lo scandalo. Coi suoi sudati 20 marenghi Angelo acquistò 44 pertiche di terreno, e ci eresse sopra una specie di fortilizio: una casa cioè avara di finestre e dai muri possenti, cui riappendere finalmente il cappello e i bachi da seta. Perché ora non viaggiava più. Tranne d’inverno: quando ai signori di Milano occorrevano i cavalli che tenevano a Trezzo, nelle ville di campagna, e pagavano contadini ruspanti come lui perché in sella ad un ronzino guidassero quei galoppi in città. Angelo morì prematuramente per una polmonite, che si buscò dopo aver scaricato un vagone di carbone a Verdello. Morì di lavoro, insomma, dopo averne vissuto.

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Colombo Martino di Masin (Anni ’20)

Tra i figli di Angelo c’era Martino (classe 1863), che grazie al padre «pisava sol sò», aveva cioè terreni suoi: e tra quelli di Martino, c’è Natale (1911-2005). E’ lui il reduce che ci raccontò, in un dialetto pirotecnico, la storia che noi inamidiamo nell’Italiano. I suoi primi ricordi rimontano alla Grande Guerra quando, durante i bombardamenti, le suore dell’asilo lo rincantucciavano in un sottoscala a pregare la Madonna. Intanto quelli che stavano in piazza, per evitare le bombe austriache, s’erano precipitati nel campo seminato a frumento di papà Martino; e glielo avevano lasciato «tot trapilaa».

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Natale Colombo “Masin” al centro, tra il fratello Angelo e la moglie Angela

Allora, quando i Trezzesi avevano un paio di vestiti in tutto e il sarto faceva anche da barbiere per campare, vigeva  un’usanza goliardica a Trezzo. Era quasi un battesimo dei chiamati alla Leva che, per otto giorno, bighellonavano in paese con appresso un «verticàl»: un organetto. Mio nonno chiama così il computer su cui sto scrivendo. Ad ogni modo, ciascun coscritti procurava una gallina e qualche soldo; fra crapula e bagordi, c’era addirittura chi non rincasava neppure per la notte, trascorrendola da amici o alla diaccio. Celebravano il servizio di leva, quei ventenni, come l’unico punto di fuga dal grigiore contadino.

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Dall’album di Natale Colombo
Il reduce chiamato per “Esigenza Africa Orientale”

«Sèrum ‘dree a cupà ‘l purscell» nel febbraio 1935, dice appunto il reduce Natale, quando il postino gli recapitò una cartolina d’immediato richiamo alle armi per «Esigenza O». Ora, che cosa volesse dire «O», lui non lo sapeva mica: sapeva solo di doversi presentare a Firenze, in via Tripoli. E ci andò, come ci andarono altri 5.000 soldati. Dormivano tutti sul pavimento del casermone, sparso di paglia, con addosso le due coperte di cui ognuno era stato provvisto. In poco tempo si diffusero i pidocchi, e i giovinastri se li portavano dietro per le osterie del lungo Arno senza pagare mai il conto. I Fiorentini però si dimostravano indulgenti perché, che «Esigenza O» stesse per «Esigenza Africa Orientale» cioè Etiopia, loro lo sapevano. Il giorno che i soldati sfilarono verso la stazione, per raggiungere Napoli e da lì l’Africa, c’era chi li compiangeva e perfino chi dava loro qualche lira di mancia.

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La Biancamano dall’album di Natale Colombo

A Napoli arrivarono in 5000 soldati con armi e provviste: ma di navi abbastanza capienti non ce n’era. Spuntò poi la «Biancamano» e, mentre la imbottivano di muli e soldati, Umberto II ebbe tutto il tempo di stringere la mano a ciascun militare; compreso il nostro reduce. Aggredivamo l’Etiopia perché certe sue insolenti pecore avevano osato pascolare sulla terra eritrea, che già era aggiogata agli «italici destini»; e secondo Mussolini uno smacco simile andava redento nel sangue. Così ricordava Natale Colombo. La traversata fu travagliata dallo spettro di un siluro, che gli Inglese si temeva sganciassero (ma non sganciarono) per sgozzare nella culla la concorrenza coloniale italiana: le esercitazioni di evacuazione, perciò, erano all’ordine del giorno. Ciascuno aveva un numero, che lo assegnava ad una scialuppa; e chi si fosse imbarcato su quella sbagliata, in caso di pericolo effettivo, sarebbe stato fucilato.

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Coi commilitoni, dall’album di Natale Colombo

Lo sbarco a Massau in Eritrea dell’84° Reggimento Fanteria, in cui Natale militava, non fu fra i più agevoli. Tra temperature infuocate e zanzare anofele ci vollero venti giorni perché la Biancamano vomitasse tutta la sua guerresca farcitura: poi se ne tornò in Italia per rimpinzarsi di nuovi soldati da sbarcare in Eritrea. Quelli già giunti, intanto, s’erano accampati sugli altipiani più ventilati attorno ad Asmara: aspettavano che terminasse la stagione delle piogge per guadare un fiumiciattolo, confine tra Eritrea ed Etiopia. Lo fecero il 6 ottobre 1935 con già appresso un monumento da piazzare ad Adua, in memoria dei soldati italiani caduti nel 1896.

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1935, Ricordo a stampa dell’inaugurata cappella

Secondo alcuni la nostra tattica bellica era tra le più ciabattone d’Europa ma gli Etiopi, di tattiche belliche, non ne avevano punto: avevano solo certi fucili belgi. Perciò, dopo qualche sporadica sparatoria, Adua capitolò. Una delle poche vittime fu un Tenente Colonnello che andava predicando: «Vi voglio portare a casa tutti», ricordava il reduce Colombo. Ad Adua il Ras Negus già non c’era più ma c’erano due suore, un po’ contrariate dal turpiloquio della soldatesca, che pure si diede ad erigere una chiesuola al Santo Rosario. La chiesuola fu subito incensata con la retorica gladiatoria dell’epoca («Prima del balzo / verso le posizioni / del destino di Roma imperiale segnate / vogliono i Fanti / dell’84° “Venezia” Medaglia d’Oro / questa Cappella da loro costruita / dedicare / nel nome delle mamme / alla Madonna di Pompei / dolce Madre di tutti i Fanti / Signora di ogni nobile ardimento / Regina della Vittoria e della Gloria» (Col. Masina). Le divisioni italiane, ognuna delle quali seguita da un manipolo di operai, proseguirono a stappare pozzi e sgomitolare strade asfaltate, intitolandole ai propri paesi natali. Il che non pareva però riguardare gli Etiopi, che continuavano a camminare tra le sterpaglie e a bere dai fiumi. Sotto la loro placida resa covava la ribellione: massacrarono ottanta Italiani, una notte, squartando selvaggiamente anche una donna gravida. Erano gli operai al seguito della divisione in cui militavano Natale e un Comotti Antonio (Chinàl) che, nonostante il divieto, riuscì a fotografare le autorità etiopi impiccate per la rappresaglia.

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Ricostruzione della cappella (Francesco Perlini)

C’era bisogno di un’esecuzione dimostrativa (ricordava il nostro reduce) e si dovette impiccare quelle autorità perché, a sparargli addosso, ridevano. Dopo aver preso Aksum, la città santa dove c’erano certe gabbie coi leoni chiusi dentro, la divisione in cui combattevano Natale e gli altri Trezzesi pose il presidio a Debra Birhan. L’ordine era di scortare Achille Starace fino ad Addis Abeba: perché ad accaparrarsi il merito dell’espugnazione fosse lui e, con lui, il regime. Durante la marcia l’acqua iniziò a scarseggiare finché, una notte, non incrociarono un fiume sguazzante di serpi e coccodrilli. I soldati, senza troppo badare alla fauna fluviale, vi s’immersero in piedi fino alla bocca. E in piedi iniziarono a bere. La mattina dopo, alcuni Sergenti proposero per colazione i cinque coccodrilli, freschi del resto, che avevano appena ucciso. Mentre nella notte un attendente romagnolo accoppò, avviluppato ad un tavolino, un pitone. La pelle del rettile venne spedita in Italia: probabilmente per arredare il salotto etiope del Colonnello.

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Foto del commilitone Paolo Motta, dall’album di Colombo

C’erano ottocento cammelli con la truppa, ricordava il reduce Colombo; e morirono tutti sulle mulattiere in salita. Le carogne, bruciate col lanciafiamme, levavano alla guerra un inno infernale di fuoco e puzzo. Dopo la caduta di Addis Abeba, la divisione di Natale marciò di nuovo verso l’Eritrea. Anche se sul Lago Tana gli aerei sganciarono qualche cassa di vivande e sigarette, la fame era sfiancante. C’era chi ne moriva. E c’era chi invece si cucinava certe erbe spontanee, e raggiungeva gli altri sotterra ma con la pancia piena. Solo in Eritrea i sopravvissuti poterono sfamarsi, prima di tornarsene a casa loro.

Natale Colombo reduce dal fronte ellenico

Rincasato a Trezzo, il reduce Natale sposò il 29 marzo 1937 Angela Minelli. Angela varcò la soglia dei novant’anni gareggiando in longevità col marito, che ebbe patente fino al 92. Il 13 settembre 1939 glielo richiamarono alle armi, questa volta ad Imperia. A dicembre molti se la svignarono a casa in permesso agricolo: soprattutto quelli che, benché non avessero mai avuto una vanga in mano, in mano avevano ora una lettera di raccomandazione. Perciò il contadino Colombo restò in divisa, ma non in Italia perché lo sbalestrarono in Albania: c’arrivò da Brindisi «so ‘n barcum cumè quel di Biloo, dumè ca’l gh’era ‘na bott in mess». Pennellate corsive ma precise: la barca, simile a quella dei Colombo sabbionai, e la botte. Intanto il dittatore Metaxas, checché ne dicano gli storici, pare avesse concordato con Ciano l’invasione italiana della Grecia: perciò i nostri soldati allestirono un attacco farsesco. Ma morirono sul serio perché, quella notte, Metaxas fu avvelenato e l’accordo calò nella fossa con lui.

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Coi commilitoni, dall’album di Natale Colombo

Nel marzo 1942 il reduce Natale s’arruolò nei mitraglieri. Fu allora che, ripiegando in una gola, la strategia italiana diede il suo peggio: le truppe d’aria mitragliarono quelle di terra, sprovviste dei colori di riconoscimento, e falcidiarono così 17 vittime. Questo a riprova che, di fare la guerra, noi Italiani proprio non siamo capaci: come poi confermò anche chi, catturato dai Greci, scrutava le grottesche manovre dei compagni. E tantomeno sappiamo trattare coi prigionieri. Al Colombo capitò di scortare un Colonnello, cui i partigiani greci mirarono, accoppandone però solo l’attendente. Il caso volle che in quei giorni venisse acciuffato anche un Greco, che con l’agguato non c’entrava un accidenti. Tuttavia, alla Messa domenicale, fu annunciata la sua esecuzione per vendicare quella dell’attendente: e, siccome l’attendente era sardo, sarebbero stati quattro commilitoni sardi a fucilarlo. Il Greco era già nella scarpata, in cui sarebbe stato sepolto, e rifiutò la benda; anche perché lo avrebbe impacciato nella fuga che intraprese, braccato dal Colonnello. Alla fine gli sparò lui, ma fu un’esecuzione che di militaresco aveva solo l’arma.

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Natale Colombo in divisa

Benché, dopo il rovinoso episodio della gola, fosse Benito Mussolini in persona a ordinare il contrattacco, il Colonnello De Renzi (noto «animal da foss») rifiutò: e il rifiuto costò alla sua divisione, che poi era quella di Natale, l’invio in prima linea. Qui Natale, con due compagni, installò la mitraglia accanto ad una «mugnaca», che a Trezzo vuol dire albicocco. L’albicocco gli finì in testa, insieme a tutti i detriti sollevati dal colpo di mortaio che li seppellì per dodici ore. Non si può dire che, in Grecia, scarseggiassero le scuse per tornarsene a casa avvolti in una bandiera. Ma non mancavano neppure arditi come Giancarlo Cereda,  trezzese, che ricambiava in piedi il fuoco nemico: arditi o incoscienti che fossero.

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Coi commilitoni, dall’album di Natale Colombo

Il reduce Natale fu anche azzannato dai cani idrofobi, che i partigiani greci sguinzagliavano contro gli Italiani: lo misero in isolamento, gli fecero sperare nel rimpatrio ma poi lo curarono a Tirana. E pensare che guadagnava 5.50 £ al giorno. Gli unici conforti erano la corrispondenza e le sigarette, che in Grecia abbondavano. In una notte, vegliata alla luce dei mortai, Natale ne sfumacchiò di fila otto pacchetti da dieci con un commilitone trezzese. Lo fece perché, se smorzava l’ultima cicca, per appicciarsene un’altra doveva incendiare la polvere di una pallottola: il che lo esponeva alle vedette nemiche. Le sigarette che invece non s’accendeva, Natale le sbriciolava attorno al suo sonno per allontanare gli insetti: a terra, senza sacco a pelo.

«Alle kaputt!»

Gli Italiani in divisa accolsero l’armistizio di Badoglio dell’8 settembre ’43 come una manna e, forti della loro proverbiale furbastreria, vendettero tutto il vendibile nei quartier generali per rimpatriare con qualche valigia di dracme. Un paio le ebbe tra le mai anche il reduce Natale, che però dovette gettarle in un fosso. Gli alleati tedeschi smisero di salutarlo perché, come tutti gli amnistiati, era un traditore: e, come tutti i traditori, un prigioniero. Disarmarono con lui quasi mille Italiani, che accatastavano i loro fucili con la sicura e una pallottola in canna: nella speranza che qualche crucco ci si accoppasse. Quando però una manciata di Tedeschi promise di scortarci in Italia, noi (mille), ci mettemmo in marcia «cuntent cumè i merli» (ingenui, insomma) verso Atene. Chiaro che i Tedeschi ci mentivano; chiaro che noi abboccammo.

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Pietro Badoglio

Sulla strada verso Lepanto la colonna incrociò, a dorso di mulo, un prete ortodosso che teneva nella bisaccia una camicia di flanella militare italiana. Gli chiesero di dove fosse, ricordava il nostro reduce: e lui additò un paesello avvitato sui monti, contro cui i Tedeschi esplosero venti colpi di mortaio; poi lo malmenarono a morte col calcio del fucile. Questa era la guerra che rinfacciavano agli Italiani di non saper combattere, dimezzando loro per punizione anche la pagnotta. I Tedeschi, per requisire provviste, irrompevano nei negozi coi carri armati: «’ndavan dent da ché – diceva il reduce Natale – e vignivan föra da là» (entravano da un lato, uscendo dall’altro). Invece agli Italiani, che caritavano un po’ di pecora coi fagioli, i Greci facevano il prezzo. I nostri soldati non erano certo tra i più rispettosi, ma rispettosi gli toccava esserlo: per schivare la cella di rigore che puniva i maltrattamenti civili. Per i Tedeschi invece nessuna vita era abbastanza sacra da salvarsi sull’altare del Reich, perché niente era più sacro del Reich. «Macaroni traditori – ci apostrofavano – alle kaputt!»: tutti morti.

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Truppe tedesche durante la Seconda Guerra Mondiale

 

Il reduce in viaggio di lavoro (forzato)

Durante la marcia, che si snodò per dieci giorni, l’uccisione di ogni soldato tedesco era castigata con la devastazione di una città intera. Finché, pidocchiosi e malarici, gli Italiani non raggiunsero Atene. Gli ufficiali vennero spediti in un campo di prigionia polacco; la truppa invece raggiunse Salonicco, dove lavorò per un mese, alloggiata sotto un tendone. Poi i soldati vennero stipati, sessanta per vagone, in un treno da bestiame con la rete sulle finestrelle e non un cantone per la latrina. A ciascun passeggero diedero una pagnotta con una fetta di salame nascosta dentro, e si viaggiò senza soste né altro cibo per quattro giorni: per quattro giorni. Quando infine sostarono, i cuochi tedeschi posero davanti ai vagoni schiusi una marmitta di semolino e assestavano mestolate a chi ci si avventava sopra, versandone ovunque meno che nella gavetta. Sfiorarono Sofia, Belgrado, Budapest, Vienna. A Budapest il reduce Natale subì la disinfestazione e, mentre lo radevano prima della doccia, gli ripulirono anche lo zaino. Con lui c’era il trezzese Pin Burtulìn, il cui nomignolo è l’unica pennellata buffa che si possa assestare a questo racconto.

Al campo di smistamento, vicino Vienna, il reduce Colombo venne affidato alla squadra degli anziani: la «Tod» (morte); perché anche agli anziani tedeschi, fossero stati pure centenari, era fatto obbligo di marciare nell’esercito fino alla tomba. Ai loro comandi gli Italiani s’inoltrarono nella Rhur, che era la fucina bellica dei Tedeschi, fino ad Essen. Qui trascorsero ben dieci giorni sotto una pioggia di bombardamenti, cui una volta Natale scampò accovacciandosi sotto la chela di una ruspa. Il loro compito era scavare canali di scolo perimetrali alle piste d’atterraggio. Ma il pellegrinaggio degli Italiani non s’era ancora concluso. Li accalcarono di nuovo sul treno, verso Colonia e quindi nei Paesi Bassi. Qui i nostri soldati, dispersi in una fiumana babelica di Greci e Russi, costruivano le baracche per gli altri prigionieri. C’era anche un provetto elettricista greco, Mastro Jorgo, che tremava sempre come una foglia per via dei calzoni sbrindellati che portava addosso. Le ore di lavoro quotidiano erano dodici, la sveglia strombettava alle 05.00, l’acqua era gelida e il rancio uno: uno al giorno, alla mattina o alla sera. Lo cucinavano dentro un enorme calderone in cui ribollivano fino a sciogliersi ossa, barbabietole e crauti; cibandosene, alle volte, venivano i conati. Fortuna che c’era la pagnotta, anche se con sopra la data di qualche settimana prima. A turno la affettava per i compagni un prigioniero diverso, che doveva ben calibrare lo spessore delle fette visto che la sua era l’ultima.

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Bombardamenti britannici sulla Ruhr

L’unica rivalsa che gli Italiani potevano permettersi era appioppare qualche soprannome tipo «Occhi di Bue» agli ufficiali tedeschi anziani. Natale barattava con loro due sigarette per la pagnotta che tanto, sdentati com’erano, non avrebbero potuto nemmeno sbocconcellare. Sudava nella neve gelata, con ai piedi degli zoccoli olandesi; e ogni cencio che scovava se lo avvolgeva attorno ai piedi o alla testa. Gli Italiani più giovani, i «tendaròt» come li chiamava il reduce Colombo, morirono tutti di freddo o di stenti: e lo facevano in silenzio, dopo aver perso un po’ di sangue dalle orecchie o del naso. Ai lavoratori come loro, che sebbene forzati erano chiamati «volontari», veniva corrisposto uno stipendio. Quando lo incassavano, gli Italiani dovevano firmare un registro; ma uno di loro, persuaso che la firma gli fosse estorta per qualche altro losco motivo, rifiutò la sua. E sarebbe morto dentro il mirino di un mitra, se non fosse intervenuto un superiore a placare l’attendente che lo imbracciava. Perché i Tedeschi veneravano l’ordine e, dove non lo trovavano, istauravano quello del cimitero.

Uova e scarpe gialle per il reduce italiano

Mentre gli anglo-americani avanzavano, i Tedeschi se n’andarono tutti, chi per fronteggiarli chi per fuggirli: comunque non prima d’aver ordinato ai prigionieri d’incolonnarsi verso Brema. Era un ordine più o meno perentorio, più o meno eseguito: di sicuro, più perentorio che eseguito. In marcia, famelici e smarriti, gli Italiani bussavano a tutte le porte la carità d’un tozzo di pane. Ma molte donne rispondevano d’averne già fatta abbastanza finché, con un compagno, Natale non trovò accoglienza in una fattoria. La sera mangiò pancetta e patate, dormì sul fieno e ripartì la mattina con sette uova nello zaino. Visto che il suo compare aveva ancora fame, ne fecero una minestra, che però l’affamato non digerì. Era preda di feroci fitte allo stomaco, quando un soldato tedesco ferito sorprese entrambi. Li scortò nella locanda del paese più vicino e, con tutta la persuasione di cui un mitra è capace, ordinò un caffè per il prigioniero indisposto. Lo avrebbe accompagnato anche in ospedale poi, mentre a Natale ribadì solo di scarpinare fino a Brema. Lui che poteva.

Brema distava ancora 50 km, e il reduce Colombo li macinò senza sapere che là i Tedeschi l’avrebbero internato in un altro campo di lavoro, se intanto un carro armato americano non avesse sfondato i reticolati germanici. Le strade di Brema, dove si sfornavano i sottomarini tedeschi, erano state allagate per arrestare gli Americani: che non si arrestarono. Nel campo di prigionia diedero fuoco a magazzini di scarpe e vestiti. Poi condannarono l’unico kapò rimasto a spazzare i «cagatòi» intasati, adoperando la ramazza con cui venne infine malmenato. Ognuno arraffava quel che poteva: a Natale spettarono una tovaglia, qualche cubano, un vestito da ufficiale e un paio di scarpe gialle. Gialle, sì.

Il reduce Colombo e l’odissea del rimpatrio

Tribolata era la convivenza nel campo degli Americani, che lasciavano il fucile poggiato alla porta della morosa di turno: e c’erano fucili appoggiati ovunque. I Russi non ci soffrivano perché avevamo gli Alpini a casa loro. Un Africano, che combatteva nelle variegate truppe britanniche, pestò un prigioniero italiano (civile, per giunta) perché lo accusava d’avergli ucciso il fratello in Etiopia. E la notte un suo commilitone, anche lui nero, andava sparando tra le cuccette italiane con due bottiglie di cognac nelle saccocce dietro. Ma il comando americano, per quanto sbarazzino, non lesinava certo ai suoi sottoposti il rancio, che veniva distribuito dalle 09.00 alle 21.00 a chiunque avesse la tessera. E, oltre alle tessera, gli Italiani avevano abbastanza appetito arretrato per sfruttarla appieno. Impararono così che, il pasto, va’ servito in stoviglie di alluminio prima sterilizzate: loro che erano addestrati a spazzare la gavetta col pane.

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Soldato delle truppe Alleate

Agli Italiani, che accettavano di combattere con loro in Giappone, gli Americani offrivano inoltre un malloppo astronomico: mezzo milione, più o meno. I più preferirono però tornarsene a casa, anche per assicurarsi che casa ancora ci fosse. A ciascuno di loro consegnarono una valigia di legno, con dentro ogni sorta di bendiddio: sigarette, cibo, zolfanelli, caramelle. E li misero su un treno con tanto di posti a sedere. Ci viaggiarono sopra dieci giorni, gli Italiani, fino a Bolzano. Ma, prima di transitare dalla Svizzera, era richiesta una quarantena. Perciò varcarono la chiostra delle Alpi attraverso il Brennero. Era il giugno 1945.

Il reduce Natale incrociò a Bolzano un prete di Crespi, che lo scarrozzò poi fino a Cassano: qui un passaggio fino alla Riva dei Frati glielo diedero i partigiani, benché fossero a corto di benzina. E, infine, fu un carretto con due suore sopra che lo scortò in paese. Qui si fermò all’osteria del cugino «Masìn», su via Carcassola, da dove la notizia del ritorno conquistò le orecchie di tutti. Finché anche i parenti, sorpresi nei terreni a «pè biôtt» (scalzi), non poterono riabbracciare in Piazza Nazionale il loro Natale: “loro” perché non era più proprietà della patria, della sorte o della guerra. Con quello che era avanzato nella valigia di legno, i suoi figli mangiarono una settimana. La guerra era terminata, sconfitta; il Masìn reduce non sa se combatterla sia giusto, ma sa cosa di certo non è giusto: morirne a vent’anni appena.

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