Da incoraggiata virtù a imbarazzo moderno, che cos’è il silenzio? Come un cavaliere inesistente, può dire qualcosa solo se il linguaggio gli assegna un’armatura, arruolandolo nel proprio recinto. In diverse grammatiche, il tacere prende allora significati diversi: punteggiatura, ascolto, reticenza, Dio. Possiamo sapere il silenzio solo ripercorrendo storicamente le sue posizioni di senso.
La parola e il silenzio. Al centro, gli Achei in cerchio posavano il bottino da distribuire o la salma da onorare, come canta Omero. Specie dalla riforma di Clistene (508 a.C.), che allarga la base sociale del potere, la spada della parola sta ora in mezzo per tutti coloro che abbiano diritto a impugnarla. Sull’agorà greca il dire di ciascuno si incrocia nel dire di tutti come decisione politica. Un cittadino muore alla parola se il discredito del tacere lo coglie come un castigo.
Non trova udienza sull’agorà chi abbia gettato via lo scudo o fuggito la guerra; chi abbia maltrattato i genitori, negando loro un sostegno nella vecchiaia; chi si prostituisca all’amante per propria bassezza o incoraggiata dal padre, in tal caso sanzionato anch’egli dall’atimia, che sospendo con disonore la parola. La riduzione della voce al silenzio degrada il cittadino alla quota di chi non parla democraticamente: l’esule, lo schiavo, lo straniero, l’adolescente, la donna, il salariato, lo schiavo, il barbaro o il morto. Il tacitato è interdetto anche dalle cariche d’araldo e ambasciatore, dai cori e dalle orazioni religiose.
Solo Pitagora definisce salvifica questa penitenza, sovvertendone il segno. I suoi discepoli si allenano a negare il corpo, individuale delle membra e collettivo della polis, col silenzio scelto in rinuncia alla parola politica. Entro la felice metafora di un corpo/granaio, l’ascolto silenzioso ammassa quanto il dire non deve dilapidare. Il tacere esule dalla città ci rientra ora come precettore per i savi e persino per i governanti che la reggono. A questa continenza si voterà lungamente non solo la pedagogia ma l’iconografia del sapiente e del sovrano che, governando se stesso, governi anche gli altri.
La metamorfosi del silenzio, da negazione politica a sapiente continenza, si compie storicamente proprio al tacere della polis sovrastata dalle monarchie ellenistiche. Plutarco dispone il nuovo assetto del silenzio in opere quali il De garrulitate o il De recta ratione audiendi. Nel De Iside et Osiride, l’autore interpreta come invito a tacere il gesto convenzionale di Arpocrate, figlio dei due. Questi porta alla bocca il dito, che definisce la sua condizione di infante nell’arte egizia. Ma Plutarco interpreta il dio fanciullo quale divinità del silenzio.
Anche per il Cristianesimo primitivo accondiscendere al tacere significa rimarginare la ferita linguistica di Babele. I Padri del deserto investono nella croce l’eredità di Pitagora e Plutarco. Tra i beni del mondo, la parola viene sospesa insieme alla logica, per alleggerire l’asceta intento a scalare Dio.
L’eremita assolve l’anima dalla discorsività e persino dalla preghiera, che si asciuga al semplice Nome di Gesù ripetuto. Il dire si fa scalzo e rapinato a correzione della sua indocilità. Se una parola contrita innalza dall’inferno al paradiso il ladrone buono, infatti, una parola traditrice precipita Giuda nella direzione opposta. E giusto dalla bocca il Diavolo lo aveva invasato. Disciplinarla significa sostenere l’attacco diabolico che, specie a mensa o sul giaciglio, insidia il monaco. Il signum arpocraticum ha però cambiato direzione: se sorvegliava l’uscita dei misteri pagani dalle labbra, ora ne sigilla l’ingresso perché il Diavolo cristiano non si insinui.
La bocca è teatro sensibile del miracolo eucaristico e, insieme, occasione di eccessi o scurrilità conviviali. Esaltare la prima dignità in odio alle deviazioni seconde significa vivere di quasi nulla, assottigliando la parola e il cibo. Nei chiostri si affermano la preghiera mentale, il divieto di indossare zoccoli e l’adozione di un linguaggio gestuale, lodato anche da Abelardo. Specie l’obbedienza benedettina rarefa il dire, mai però bandito perché suscettibile d’essere evangelizzante predicazione o confessione sacramentale, senza cui il Cristianesimo si disinnesca in privata astrazione. Un dovere di testimonianza, che è obbedienza al padre spirituale, chiama i mistici alla parola estorta, esausta: Caterina da Siena, Teresa d’Avila, Veronica Giuliani.
Per distanza dal clamore della plebe, scomposta e ferina, l’imperatore (d’Occidente ma soprattutto d’Oriente) è tacito e imperturbabile: diparte dalla condizione umana e scava una distanza. Della maestà divinizzata si secreta il corpo come la voce, cui gli uditori sono come iniziati. Il cerimoniale bizantino accorda l’epifania imperiale solo all’Ippodromo, in santa Sofia o per l’udienza alle magistrature, coincidente con le maggiori solennità religiose: la Pentecoste, ad esempio. Speciali silenziari vegliano perché il brusio di corte non graffi il silenzio che accoglie l’imperatore come un Dio. Giustiniano ne nomina trenta. Il tocco promiscuo delle voci non deve violare il corpo muto dell’imperatore. Se egli è atteso come una divinità, quest’attesa è un silenzio che vibra nella reggia come nel chiostro, siede alle imbandigioni imperiali come nei refettori, suscitando linguaggi gestuali simili a quelli d’ambito monastico.
Il tacere dell’imperatore e quello di Dio, ascoltati dal silenzio cortigiano e claustrale, convergono tanto che Giovanni Crisostomo pone l’audizione delle regie sentenze a modello per l’attenzione riservata alle letture bibliche. Incrociando regola militare e monastica, specie il Cavalierato della Spada conferma il valore del silenzio religioso recepito dalla laicità. Fondato da Pietro di Lusignano nel 1193, l’ordine assegna ai prescelti una catena d’oro i cui anelli modellano l’iniziale della parola “silenzio”.
L’imperatore conduce vita astratta, segreta e sillabata da un cerimoniale più mirato a tacere che a dire. Il silenzio è così consustanziale al potere che il consiglio del trono, nella tarda antichità si chiamava silention: silentia quelli indetti dai vescovi di Costantinopoli. Il sovrano si pietrifica in sereni mutismi: Tranquillitas tua è l’epiteto riservatogli dalla tarda romanità. Perché la sua voce avvenga nella reverenza più stupita, egli esercita rare volte un eloquio pur minimale e prudente. Come già Nerone, così Giustiniano ha chi parli in sua vece: un quaestor, creato da Costantino quale bocca dell’imperatore.
Demandare la voce è gesto fondativo per la successione di protonotari, cancellieri, segretari e oratori che accedono al silenzio regale per riportarne i detti. A specchiare la gerarchia di corte, c’è dunque una gerarchia dei silenzi. L’intimità imperiale concessa al segretario gli impone lo stesso silenzio cui alle volte i mistici si appellano: quasi una reticenza che conservi inviolato il segreto. A disciplinare la condotta degli amministratori prudenti sono, tra il 1584 e il 1670, ben dodici opere sul perfetto burocrate. Al silenzio alto del sovrano s’inchinano così il tacere riservato del segretario e quello obbediente del cortigiano. Questa sovranità del silenzio sulla parola non si rivela meno religiosa che laica. Dall’antichità pagana il Cristianesimo recupera il precetto storico del silenzio, politicamente e religiosamente accolto dai sovrani come dai mistici. Laico o spirituale che sia, il tacere siede alle loro mense, percorre diversamente il chiostro e la reggia.
Ma oltre al tacere verticale, inginocchiato di fronte alla parola insostenibile della mistica e del potere, c’è un tacere orizzontale: l’ascolto, l’attenzione. Il suo esercizio consegue fraternamente parole e note; le distingue dal rumore indistinto, inaugurando lo spazio del loro rivolgersi dialogico e musicale. Soprattutto, un silenzio simile placa il dire inquisitorio che “giudica e manda secondo ch’avvinghia”. Praticare questa epoché, che Pier Aldo Rovatti ricolloca entro la fenomenologia husserliana, significa ascoltare ogni volta dal silenzio un mondo mai combusto dal dire coloniale e ingenuamente conclusivo che l’uomo dirige alle cose. Aerata dal tacere, che consente l’architettura della musica e del dialogo, la parola si rovescia poeticamente: apre radure di vigile umanità senza contendere a uomini e cose il loro segreto. Il silenzio scampa così il dire dal brusio, che è l’indegnità della parola.
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Per approfondire
Su questo sito: Arpocrate e l’arte del silenzio;
AAVV, Le dimensioni del silenzio: nella poesia, nella filosofia, nella musica, nella linguistica, nella psicanalisi, nella pedagogia e nella mistica, a cura di Massimo Baldini, Roma 1988;
AAVV., Le forme del silenzio e della parola, atti del convegno tenuto a Trento nell’ottobre 1987, a cura di Massimo Baldini e Silvano Zucal, Brescia 1989;
AAVV., Il silenzio e la parola da Eckhart a Jabès, atti del convegno tenuto a Trento nell’ottobre 1987, a cura di Massimo Baldini e Silvano Zucal, Brescia 1989;
AAVV., Silenzio di Dio, silenzio dell’uomo, a cura di Massimo Casaro, Milano 2005;
Massimo Baldini, Elogio del silenzio e della parola. I filosofi, i mistici e i poeti, Soveria Mannelli 2005;
Linda Bisello, Sotto il “manto” del silenzio: storia e forme del tacere, secoli 16-17, Firenze 2003;
Roberto Mancini, I guardiani della voce: lo statuto della parola e del silenzio nell’Occidente medievale e moderno, Roma 2002;
Roberto Mancini, La lingua degli dei: il silenzio dall’antichità al Rinascimento, Costabissara 2008;
Pier Aldo Rovatti, L’ esercizio del silenzio, Milano 1992;
Vita e detti dei Padri del deserto, a cura di Luciana Mortari, Roma 1996.
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