La storia di Concesa, casa fortificata e borgo agricolo tra vigne e acque miracolose: non solo la frazione del comune trezzese
Concesa non è un’escrescenza di Trezzo. Benché si avviti sulla piccola piazza, il paesello vanta una storia più remota che conosciuta. Nel 1147 un certo Abbus de Concesa vendeva al vescovo di Cremona alcune sue proprietà a Fornovo. Allora la frazione concesina aveva una casa fortificata, già ritratta nel Codice Windsor a firma di Leonardo da Vinci, alta sullo sperone dove i Bassi rassettarono nel 1851 l’odierna villa Gina.
Nel XII secolo il paese contava due chiese: dedicata a Santa Maria Assunta una, l’altra a San Nazario. Le titolazioni si sommarono nel ‘500 per volontà di Giovanni Pietro Qualea, che accorpò le due cappelle in un unico tempio. Qualea era canonico a Santa Maria della Scala, chiesa milanese voluta dalla moglie scaligera di Bernabò Visconti là dove oggi sorge l’omonimo teatro lirico. Allora la Madonna guardava Concesa da due dipinti. Il primo era affrescato sul primitivo campanile a vela, poi sostituito dalla torre ancora visibile. Leggenda vuole vi sgorgasse sotto un fonte miracoloso, disseccato per l’empietà di due cacciatori che vi tuffarono un cane idrofobo. La sorgente riapparve lungo il Naviglio, dove fu perciò eretto il santuario carmelitano. Una seconda immagine della Vergine si venerava nella parrocchia: era la «Madonna del Soccorso», distrutta nel 1905 dall’imperizia dei restauratori, che ne dipinsero un’altra. L’opera però spiacque tanto al prevosto don Marelli che la intonacò, rimpiazzandola con una statua.
Il paese si stringeva attorno alla chiesa quando nel ‘700 lo comprarono i conti Cavenago, che già possedevano Trezzo da un secolo scarso. Divideva i due centri una campagna cesellata appena dai sentieri. La via che irrompe in Piazza Cereda fu aperta solo attorno al 1960, durante i lavori autostradali. Per tracciarla fu sventrata villa Lattuada, le cui superstiti colonne sorreggono oggi un porticato davanti al santuario carmelitano. Prima la cesura era netta, linguistica persino. Il naviglio, lo sposalizio e l’officio che i Trezzesi chiamano «naviri», «spusalési» e «ufési», a Concesa si pronunciavano «niviri», «spusalisi» e «ufisi».
Quando ancora non lo era, la frazione aveva un municipio e le scuole elementari all’angolo di via Alessandro Manzoni. Solo nel 1869 Concesa fu saldata a Trezzo, perché non contava che 320 anime. Tutte contrarie però, visto che nel 1908 presentarono un’istanza per ricostituirsi comune autonomo. Ne avevano già contestato la soppressione, bruciando le sterpaglie del contado. Da allora i Concesani sono detti «Brusadèi». Anche se un’altra versione li spiega “bruciati” dal sole mentre si ostinano a zappare le loro terre magre e sabbiose; terre da vite più che cereali. E in effetti le cantine di casa Lattuada, in piazza Cereda, ribadiscono il passato vinicolo della zona. Alla famiglia il governo spagnolo affidò la soffocante esazione fiscale. Presto però i debiti cumulati dai Lattuada, che non riuscivano a incassare il dovuto, ne compromisero il patrimonio.
Contigua alla loro villa era un’osteria, attestata già nel 1575. Ci si versava il vino spremuto dai numerosi vigneti di Concesa: l’«Ordinario», la «Terza Gamba», il «Campazzo», la «Morella» (ancora proprietà Bassani nel Novecento, su viale Lombardia), la «Guarnazzola». Persino la nuova parrocchia venne eretta tra il 1909 e il 1910 su una vigna, quella «della Noce», proprietà Bassi. A Paolo Bassi, che volle villa Gina su modello della tenuta fiorentina di Fontallerta, Concesa dedica tra l’altro una via. Qui era il panificio la cui prima infornata bruciò guadagnando ai cittadini, secondo un’altra tradizione, il nomignolo di «Brusadèi».
Pur piccolo, il paese era stato autonomo per secoli. Si bastava. E questo fortificò l’orgoglio dei Concesani perlopiù carrettieri, contadini o scalpellini. Nel 1836 il parroco don Bianchi istituì un lascito per la dote delle ragazze indigenti ma tre anni dopo il capitale, ancora intatto, comprò le nuove campane della chiesa. Di Concesane povere certo non ne mancava. Mancavano forse quelle disposte ad accettare l’elemosina. La fierezza del paese era semplice ma corale. I bimbi vegliavano sulle frontiere trezzesi di via Mulino, via Carcassola, via XI Febbraio, via Quarto e (in parte) via Mazzini. Ribattevano «Tress Tress maia ghèss» (ramarri) ai marmocchi rivali che gridavano «Cuncesa Cuncesa maia la pésa». I ragazzi si cimentavano, quasi ogni domenica, in tornei di «pinpinell» indetti sul ciottolato di Piazza Grande che sta sotto l’asfalto dell’attuale Piazza Cereda. Si batteva a mani nude la pallina, accompagnata dal grido dei tifosi. Ma di Concesa non erano meno tenaci gli adulti.
Nel 1945 ammassarono carretti, scale e conigliere sulla via che sale al paese quando intravidero i Tedeschi giungere da Vaprio per la «Val Fregia». La barricata era esile, comica quasi, e i neri stivali nazisti marciavano verso Capriate. Eppure anche da loro i «Brusadèi» erano pronti a difendere Concesa, che proprio non è un’escrescenza di Trezzo.
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