Dalla piazzaforte di Lodi al rione trezzese Valverde, la genealogia Lancrò esprime soldati, sarti, osti, tessitori, falegnami, cenciajoli e calzolai: tra spade di guerra e pacifiche botteghe, variazioni genealogiche su un cognome d’origine francese.
Il 19 aprile 1731, con l’intervento di un solo sacerdote, il corpo sessantenne di Lodovico Lancrò cala nel sepolcro militare della parrocchia trezzese; non senza cicatrici, visto che l’uomo è «soldato nell’Imperiale Castello di Trezzo, della compagnia dell’Illustrissimo Signor Capitano Giovanni Battista Clarici». Risalendo l’Adda, Lodovico giunge in servizio qui dalla piazzaforte di Lodi, dove la moglie Angela Maria Pareda (1679-1734) gli genera l’erede maschio continuatore del cognome Lancrò: Antonio (1718-1756) che, il 1° febbraio 1735, bacia all’altare di Trezzo Caterina Tosi fu Abramo (1712-1782).
Antonio veste il sacco nella Confraternita di Santa Marta, eretta all’oratorio presso l’omonima porta del borgo verso l’amica città di Milano. Anche grazie a questa adesione, la famiglia Lancrò si insedia felicemente nell’assetto paesano. Dopo l’acerba morte in culla delle prime due figlie, Antonio e Caterina accolgono a balia il neonato Giovanni Battista Bonamici di Ottavio: la scomparsa di costui (1739) scuote la coppia al punto che, l’anno seguente, il terzogenito Lancrò viene battezzato proprio col nome del baglito. Tra i dieci nati di Antonio e Caterina, Abramo Lancrò (1753-1803) è l’unico a perpetuare il cognome a Trezzo, dove esercita il mestiere di sarto.
La sera del 12 febbraio 1774, con dispensa e quasi in clandestinità, Abramo sposa Colomba Taeggia fu Carlo (1752-1810). La coppia risiede in una proprietà dei Cavenago (Stato d’Anime, 1775) e quindi di Domenico Pirola (Stato d’Anime, 1781), probabilmente sullo stesso rione Valverde, che si conferma punto d’irraggiamento per la genealogia famigliare. Tra gli undici figli di Colomba e Abramo, Angela Maria sposa nel 1802 Carlo Riva, falegname da Busnago; Caterina (1784-1861) è operaia tessile; Abramo (1796) e Giosuè (1788-1852) sono entrambi sarti, pigionanti dei nobili Bassi. Almeno finché, il 30 novembre 1824, i due fratelli non acquistano parte dell’ex-proprietà Bussero-de Caroli, oggi albergo Villa Appiani sulla discesa della Valverde (AsMi, Notarile, 50530, cfr. Ferrario Mazza). Malgrado i due acquirenti ne preferiscano spesso la compilazione dura e quasi “germanica”, Lankrau, l’origine del cognome è documentabile in Francia.
Del capostipite Lodovico, Giosuè è forse il discendente più cospicuo: nel 1847 risulta titolare a Trezzo di una filanda da 2 fornelli e 2 aspe per totali 40 giorni di lavoro annui (Società d’Incoraggiamento d’arti e mestieri, Milano 1851); è inoltre sarto e oste, affidando il bancone al figlio Abele (1814-1880). Questa economia coinvolge irresistibilmente gli altri famigliari nella coabitazione tra Giosuè e Abramo, il cui figlio Dionigi (1826-1903) esercita così i mestieri di oste e cenciajuolo proprio come i cugini Giacomo e Abele Lancrò. A questa quota cronologica, non è infrequente il soprannome famigliare “Bram”, dal patronimico Abramo (Cfr. Elenco soci Società Operaia Mutuo Soccorso, Trezzo).
Benché annodati da vincoli economici, residenziali e di parentela, i due rami discendenti da Giosuè e Abramo si divericano, meritando una progressiva autonomia. I nipoti del primo tengono così osteria e falegnameria; sono censiti tra i pionieri della locale Società Operaia di Mutuo Soccorso (1879); convengono matrimoni con altri commercianti della zona (gli osti Sala di Vaprio d’Adda, i commercianti Spada di Merate). La discendenza di Abramo passa invece da Dionigi, sul cui patronimico si ricalca il soprannome dialettale della famiglia: “Diuniis“.
Costui sposa a Milano Camilla Guarnieri in primi voti (1846) e in secondi voti Rachele Pozzi a Monza (1854), testimoniando l’ampio arco delle sue frequentazioni non strettamente paesane; almeno tra il 1847 e il 1855, tiene inoltre osteria a Pozzo d’Adda, dove battezza quattro dei suoi tredici nati, tra cui una coppia di gemelli; circostanza non infrequente nella genealogia Lancrò. In entrambi i rami famigliari ricorrono accordi nuziali, cinque in tutto, con i Nava prestinai da Cornate d’Adda; documentando così un’assiduità nelle politiche matrimoniali degli esercenti lungo la riva occidentale dell’Adda, sempre percorsa a cerniera e mai attraversata. I Lancrò “Diuniis” intercettano in ambito nuziale anche i Pirota, mugnai da Inzago, ma si perfezionano nell’arte della calzoleria, poi proseguita da almeno sei membri della famiglia. Gaspare Giuseppe fu Dionigi detto “Papetu” (1860-1933) si vota per primo a San Crispino, patrono dei ciabattini, associandosi il fratello Vittorio Alessandro (1866). I due investono largamente anche in immobili a Capriate d’Adda: una casa di tre piani in via Benaglia 2 e l’altra in via Ceresoli 5; mantenute almeno fino al primo decennio del Novecento (AsBg, Catasto urbano, Distretto Ponte San Pietro, Capriate, Registri Partitari, 133).
Era trezzese già da allora la calzoleria «Al risparmio» che, figlio d’arte, Alessandro Giulio Emilio Lancrò fu Giuseppe (1896-1956) titola così nel 1936. Al civico 2 della Valverde (acquistato dai Grumelli nel 1904) la vecchia insegna, dietro il vetro, era scandita in spessori di cartone che ancora sopravvivono sotto l’attuale. Sulle scansie a lato del banco, “Sandrum” propose per primo in paese scarpe confezionate, «i cui prezzi di vendita saranno fissati dalla ditta Bertoi & Brigatti tali da attirare la clientela e vincere la concorrenza» (archivio Lancrò, lettera edita in Balverda n. 72, 2003). Riforniva in Parabiago e Vigevano le scarpe fatte, che la moglie Ersilia Fumagalli da Trezzano Rosa (1907-1983) vendeva al bancone, avvolte in una velina bianca con il nome del negozio stampato a rosso.
Nel cortile che porticava l’interno, intanto, Alessandro accudiva il cuoio giunto insieme al pellame dalla ditta bergamasca Ledi. Lo lavorava in dialetto, chiamandolo “curam” mentre “sumensétt” erano i chiodi da zoccolo; tingeva altrimenti le pelli in sfumature obbedienti alla luna per le tomaie delle scarpe. Ne ribatteva di nuove su misura o riparava le vecchie, ritirandole dal dintorno fino a Brembate o a Trezzano Rosa, dove erano pollivendoli i fratelli della moglie. Tra gli altri, l’avvocato poeta Luigi Medici (1888-1965) s’intratteneva volentieri col «calzolaio della Valverde», cui dedicò un articolo («L’Italia», 23 luglio 1942):
«Una delle persone con le quali io m’intrattengo volentieri, in paese, è il calzolaio della Valverde… Ebbene, anche questo calzolaio del mio paese di elezione, che io chiamo Hans Sachs (l’arcinoto “Shuhmacher und Poet daza”, quasi sognando le dolci notti lunari di Norimberga) è, come tutti i suoi colleghi, un poco idealista. La sua attività non si esaurisce al deschetto, tra la raspa, la lesina, il martello, lo spago, la pece e i chiodi. Egli ama leggere e conversare, e trova nei libri e nella conversazione, un sollievo. Egli si interessa di tutto, e ha una memoria di ferro. Parlategli di poesia, di arte, ed egli vi esprimerà – e spesso colpisce a segno – i suoi gusti e le sue preferenze. Parlategli di storia, ed egli vi citerà date e figure.
Vi richiamerà ad eventi, e discuterà e si appassionerà. Fra tanta gente, che tutto il giorno arranca, per ingrassare il già grasso marsupio, e che si disinteressa di quel molto o di quel poco, che il mondo ha di bello; che vive in una ignoranza beata di tutto ciò che non sia affare, questo calzolaio è, credete – nel suo campo – una rarità: una mosca bianca. Quando sono stanco di lavorare (perché, per chi non lo sappia, lavoro anch’io, sebbene non lo annunzi ai quattro venti, con la trombetta, come tanti che, forse lavorando meno di me, pensano ch’io mi goda ozi beati) prendo il cappello e il bastone, e me ne vado in Valverde: la contrada, dove abita l’Hans Sachs del mio paese… Con il grembiule rovinato alla cintola, sta sovente sulla porta del suo negozio a contemplare il cielo. Quando mi vede arrivare, sapendo che una breve sosta sulla soglia della sua bottega è per me obbligatoria, scende dallo scalino, mi viene incontro e mi saluta. E si parla del più e del meno» (Luigi Medici, da «L’Italia», 23 luglio 1942).
Artigliere di montagna nella Grande Guerra, Alessandro militò in Macedonia, dove lo fiaccarono certe febbri malariche. Lo curò allora una famiglia la cui ultima nata portava il nome «Eler»: rimpatriato, il calzolaio lo assegnò in riconoscente battesimo alla propria figlia. Spogliato della divisa, Alessandro tornò ad aprire la porta di bottega, oggi sui cardini della limonaia Rolla prossima al castello visconteo. Le finiture delle ante, il soffitto a volta poi ribassato e una rimossa acquasantiera incoraggiano l’ipotesi che quella fosse la cappella privata degli Appiani, tradizionalmente dedicata a sant’Agostino (Patrizia Ferrario, Italo Mazza, Case da nobile in Trezzo e Concesa, Trezzo 1999, p. 120). Fratello di “Sandrum“, l’artigiere calzolaio Luigi Alessandro Cipriano Lancrò (1896) rimpatria in divisa dal fronte per morire di polmonite bilaterale a Rivoli Veronese (Vr), il 14 novembre 1918: vinto della malattia, contratta sul campo, il giovane ripeteva così il destino guerriero dei suoi antenati.
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I documenti in riproduzione sono tratti dai duplicati dei libri sacramentali presso l’Archivio Storico Diocesano di Milano, se successivi al 1770 (ringrazio Alex Valota e mons. Bruno Bosatra); quelli precedenti tale data e gli Stati d’Anime provengono invece dal fondo anagrafico dell’Archivio Parrocchiale di Trezzo sull’Adda (ringrazio Teresina Quadri e don Alberto Cereda).
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