Il maiale profana il sacro e consacra il profano: brado o domestico; impuro sulla tavola e sacrificio sull’altare, il suo corpo è stato per secoli dispensa generosamente aperta per la sopravvivenza contadina.
In «Le vocabulaire des institutions indo-européennes» (1969) il linguista francese Emile Benveniste abbatte la tradizionale opposizione tra porcus (maiale domestico) e sus (maiale selvatico). L’animale con due nomi è il più selvatico tra quelli addomesticati e il più domestico tra quelli in selvatichezza: nel maiale, natura e cultura restano senza confine? Rimesso in libertà, si riadatta alla vita brada. Allevato, grufola all’ombra antica di boschi non solo padani. Là dove Belloveso coglie una scrofa semilanuta come invito alla fondazione di Milano.
Questa condizione gianica, promiscua espone l’animale a due interpretazioni estreme: immondo o sacro, dignità che si equiparano al di sotto o al di sopra della norma, comunque disobbedendole. Il porco consacra il profano e profana il sacro. Su un fronte, i divieti biblici e coranici; sull’altro, il termine suino risalente alla radice di fertilità su-, da cui il nome inglese del figlio: son. Il maiale celebra così il dono della vita e della sopravvivenza, morendo sulla mensa e sugli altari delle dee agresti (Cerere, Demetra..).
Il maiale (pare da Maia, la madre di Mercurio, cui pure viene sacrificato) è una figura eccedente, araldicamente adottata per augurio di prosperità dallo stemma del casato Verri o dal gonfalone del comune di Treviglio. Il suo sacrificio propizia l’inverno rurale perché stia in carne, sale il rogo di Sant’Antonio (a Vimercate, una sagoma sostituisce l’animale), essendo simbolo di quella devozione. Gli Antoniani ottenevano dal maiale l’unguento per alleviare il fuoco di Sant’Antonio.
Il più fedele servo di Odisseo è un re di Siria, ridotto a porcaro: Eumeo. Consola il ritorno dell’esule, mostrando la lealtà con cui regge il porcile. Al contrario, il capraro omerico Melanzio si profila infido ed erratico. Stanziale, Eumeo è il capostipite di una linea quasi genealogica di allevatori e norcini: chirurghi minori, questi ultimi castrano il maschio per levare alle carni il sentore di verro; lo macellano, dandogli “l’anima in forma di sale”, secondo Varrone e Catone. Chi tocca il maiale si sporca di ricchezza, specie nel colloquio con l’arte casearia, che somministra ai porcili lo scarto del latte lavorato. La carne del porco era dispensa generosamente aperta alla tavola e alla medicina, se la sugna ungeva anche i massaggi sui dolori articolari.
Gli insaccati, stagionati dai secoli, chiamano nel cimento persino la teologia che deve risolvere l’adesione cristiana ai precetti veterotestamentari, tra cui il divieto di consumare tagli suini. Sospeso di venerdì, il banchetto prosegue, almeno fino alla compassione di chi si astenga da carni così lungamente divorate.
Per approfondire:
– Gino Civitelli, Divin Porcello, 2001;
– Gian Franco Cruciani, Antologia del maiale, dei pizzicaroli e dei norcini, 2011;
– Mario Donadoni, Fa sö ‘l pursèl, riflessioni fotografiche sul “rito” della macellazione (ringrazio Mario per il confronto sull’argomento);
– Adriano del Fabro, Il purcitar. Storie di maiali e norcini del Nordest, 2005;
– Jonathan Safran Foer, Se niente importa, 2010;
– Elio di Michele, I norcini e Roma: l’arte della norcineria dall’Umbria alla dominante, 2013;
– Domenico Palumbo, Il porcus nell’antichità. Linee etimologiche e funzionali tra interdetto e piaculum, 2012.
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