Tarcisio Sironi (1925-2016) conservava a Trezzo i quotidiani utensili del vivere agricolo in un museo contadino, radunato con gli amici, nel cui ricordo raccontava la quotidiana fatica dei campi.
Fu nonno Giacomo Sironi, contadino falegname, a lasciare cascina «Variöla» (in via Cavour) per la casa in via delle Racche a Trezzo dove oggi è suo nipote Tarcisio ad aprire la porta. «Quando la comprò dai Presezzi – racconta in bel dialetto il quasi novantenne – c’era un ramo di sambuco che cresceva nella finestra». Piantandoci attorno qualche noce, nonno rassettò coi quattro figli l’edificio che ora l’anziano ha popolato di arnesi agricoli («usadèj») ormai antichi insieme allo scomparso amico Giuseppe Bonomi (1925-2014): coetaneo e compaesano di cascina Belvedere: un vero museo contadino.
«Ci conoscemmo in prima elementare nell’aula della maestra Colombo “dala Rusa” – ricorda – ma poi ci perdemmo di vista». Almeno finché, anni fa, non si ritrovarono insieme ad altri pensionati nella casa che aveva avuto il sambuco nella finestra. Gino Colombo lo chiamavano «Sutrum» per i becchini che i suoi avi erano, Franco Sala «Senza Gamba», Alessandro Pozzi «Lisander Biunt» o «Ross» a seconda che si citasse il colore dei suoi capelli e del suo partito. Ne sorride ancora Giuseppe, superstite della combriccola che ha racimolato un casalingo museo contadino.
«Santamente moriva nel Bacio del Signore, benedicendo i suoi diletti parrocchiani»: così recita il quadro con le foto scattate alle esequie di mons. Giuseppe Grisetti, morto prevosto di Trezzo il 6 aprile 1936. E’ conservato al casalingo museo contadino di via delle Racche. Ce la mostra Sironi, riportando come suo padre Guido lo comprasse a 7 Lire da Rinaldo Colombo «Sutrum».
Nell’altra cornice, quella con la benda tricolore attorno, stanno i volti del caduti che Trezzo pianse nella Grande Guerra. La più grande, infine, riquadra una «Madonna delle Campane» offerta a tutte le corti paesane da mons. Grisetti per pagare le dodici campane issate il 21 febbraio 1914: pioveva.
Qui al domestico museo contadino di Sironi il passato, più che passare, rimane. «I bachi da seta, o “cavalee”, i nostri padri li compravano ad oncia dal Colnaghi “bigatee” e ne rivendevano le crisalidi alla filatura Zoia di Grezzago – rammenta il Trezzese – in casa stavano sui ripiani della “scaléra”, dove disponevamo due volte al giorno le foglie di gelso: triturate col “trinciafoia” per i primi mesi». Mostra sia le ampie mensole sia l’arnese per tritare il verde con la pazienza biblica che elesse Giobbe a patrono dei bachi. «Venivano collocati in cucina o anche in camera da letto – prosegue – Per allevarli lì, noi si dormiva “só la casina”, nel fienile, o si cenava all’aperto accendendo la stufa davanti alla rastrelliera che doveva mantenere i 20-25 gradi. Almeno finché, “in föria”, i bachi non divoravano le ultime foglie prima di imbozzolarsi sul “bosch”: il verde in mazzetti perlopiù di erica (i “scuètt”) fissati alle scansie».
L’infanzia di Tarcisio è infestata da fatiche simili. «Il primo regalo che papà Guido mi fece fu una “caréta” per raccattare “pulina”: una carriola dove raccattare lo sterco lasciato per strada dai cavalli, per concimare» dice Tarciso, che rivolge ancora il «vu» in segno di stima. Al museo contadino conserva la sua «andadüra», due parallele di legno su cui scorre un alloggio per il bimbo che ci imparasse a camminare.
C’è anche la marna del nonno falegname, che ci custodiva farina e crusca. Persino il diario che tenne durante la chiamata alle armi, dall’8 marzo 1944. «Feldpost 84345/F» recita la busta plasticata in giallo dove riponeva la corrispondenza, con scritte sopra le località che raggiunse (Sennelager, Detmold, Musingen) come alpino addetto al trasporto della piastra da mortaio. Di quei mesi, Tarcisio conserva ancora la divisa con tanto di occhiali contro la tormenta. «Ma non ho mai sparato un colpo», precisa.
Nel museo contadino le cose, silenziose compagne di fatica
Al casalingo museo contadino attrezzi arrugginiti e tarlati cadono di mano al ricordo. Sironi conserva i «sgauscìn», chiodi con asola all’estremo con cui levare i cartocci («sgaosc») alla pannocchia («löva»): non ne rimaneva che il tutolo, chiamato «bucum» a Trezzo, «mulìn» a Concesa, «resulì» sul Bergamasco. E c’era chi lo gettava nella stufa per fare più fumo che fuoco. La «cavra» è un’alta morsa a quattro piedi. Il «curlètt» un argano su cui s’arrotola la corda del pozzo, l’«erpis» una graticola dentata per dissodare i campi.
L’ironico «prét», chiamato «moniga» in Bergamasco, è una struttura arcuata a sollevare le lenzuola sullo scaldaletto che altrimenti le avrebbe incendiate. Sembra uno slittino. Al camino stava il «barnasc» (l’attizzatoio) e il «tripee» (treppiedi), pure conservati, i cui nomi in dialetto sono anche insulti alla goffaggine. La «cut» è la cote per affilare che i contadini tenevano nel «cudee», un corno con un poco d’acqua dentro, assicurato ai calzoni con un gancio (la «filipa»). Lo stesso che fissava alla cinta anche il «sighesìn» (o «sciarsciatìn») per tagliare l’erba, il «pighesott» (o «sciarsciatum») per la legna e il «sighès» («sciarscet» o «misüra») per mietere («sagà») il frumento.
Appesi ad una robinia stanno i paioli («stagnaa») del museo contadino. Su una mensola riposano invece le pialle, i girabacchini (trapani manuali) e le seghe. Nonno Giacomo usava il castagno per fare i «bagiul», legni ricurvi con due ganci alle estremità, dove le donne assicuravano i secchi dell’acqua e il bucato lavato al fiume Adda. Là dove anche un carice, erba palustre, veniva tagliata ed essiccata per intrecciarci di che impagliare sedie. «Imparai a farlo pure io, nelle sere d’inverno che passavamo nella tiepida stalla – raccontava Bonomi, mostrando due sue “cardech” – i disegni più diffusi erano a scacchiera o angolare». Sono infinite le ore necessarie a mondare la lisca, intrecciare e pulirne la corda, rifinire la seggiola; ma l’uomo ne ha comunque insegnato l’arte al figlio Fabrizio come ai nipoti.
3 Responses
Alessandro Pozzi
Bellissima ricerca, come tutte le tue ricerche. Grazie per averla condivisa. Ciao
Cristian Bonomi
Grazie, Sandro! Spero queste testimonianze non siano solo nostalgia contadina per una campagna che non c’è più: il nostro territorio va difeso, cerca più amanti che semplici cittadini!
Alessandro Pozzi
Ci vorrebbe una classe politica più sensibile a queste tematiche. E cittadini rispettosi di un territorio ereditato e che dobbiamo
lasciare alle future generazioni migliore di come lo abbiamo trovato. Ciao