Dall’Ottocento, l’Albergo Trezzo imbandisce l’Adda sul rione storico Valverde, in vista del Castello Visconteo: nelle antiche cantine, un tempo gestite dai Redaelli, è tornato oggi il vino nuovo.
L’antica ospitalità dell’albergo Trezzo. Una sala da bridge e due salette per la conversazione al piano terra, al primo un salone da banchetti e venti altre camere per i pensionanti spesso d’Oltralpe, che prestavano consulenza a Crespi d’Adda o smerciavano sui binari italiani le locomotrici smesse dalla Germania. Ancora nel 1951 l’albergo Trezzo alloggiava tre viennesi e un francese di passaggio[1]. Ma al civico 4 della Valverde persino il Principe di Savoia aveva sostato negli Anni Venti.
Proprietà Appiani, l’albergo Trezzo affiggeva già insegna nel 1889, quando a gestirlo era Giuseppe Gervasoni[2]. Zio Enrico Redaelli (1834-1893), ingegnere mezzaghese, ne acquistò l’edificio perché i nipoti Rinaldo (1865-1932)[3] e Giovanni (1867-1931) tralasciassero l’attività di carrettieri brianzoli all’imbarco per le Americhe dello scapestrato papà Battista. Dei due, il minore era produttore di acque gassate. Rinaldo diresse invece l’albergo Trezzo nella cui cucina brigava la moglie colnaghese Angelina Giani detta «Gina». Macerava la trippa fin da giovedì per imbandirla al lunedì del mercato, apparecchiando pescetti e tinca marinata specie di venerdì: o quando i pescatori della Valverde e dalle cascine rincasavano qualche ittica bellezza[4]. Per santa Teresa, l’albergo Trezzo profumava di piccola cacciagione con polenta. Ai Morti borbottava nelle pentole una minestra d’orzo con la cotica. Perlopiù ai raduni degli impiegati Taccani, Gina frollava la lepre in vasi di terracotta, freschi di vino speziato e verdure.
Nell’ospitalità dell’albergo Trezzo intingevano il pane anche l’architetto Antonio Carminati o pittori di grido quali Milanesi, Cesare Tallone e Giovanni Colombo da Busnago (1908-1972), che onorava il conto coi quadri affissi alle pareti; magari vendendoli pure in cortile. Si lasciavano ispirare tutti dal vino rosso Oltrepo o Moniga, Bardolino chiaretto e bianco Lugana. I pianoforti (a coda e non) li accordava il Villa detto «S’cepapiani» in proemio alle danze domenicali che invitavano il popolo all’albergo Trezzo, altrimenti frequentato perlopiù dopocena dai maggiorenti trezzesi[5]. Non si stringevano la destra sul campo da bocce ma nelle salette raccolte al piano terra. Della recente Unità italiana conservavano l’accento anticlericale, assestandolo al rito del carnevale trezzese, che già inceneriva un tradizionale fantoccio. Presero il simbolo dell’autorità pontificia (san Pietro) e gli tolse la legittimità della croce (cioè la «t»).
Il nome che ottennero lo imposero a quel pupazzo, vestito di nero-tonaca e dichiarato povero. Gli ignari contadini l’avrebbero arso su una pira, per giunta il sabato sera seguente al Martedì Grasso con cui chiude carnevale il Rito Romano officiato dalla parrocchia trezzese. L’accusa era precisa: non alla religione ma al clero che infatti contrastò invano la sacrilega iniziativa, poi purgata di ogni malizia[6].
Ruspante e laboriosa, la Valverde trasformava le salite in discese: era popolata di massoni e filosofi calzolai, indicendo tornei di tamburello che rimbalzavano palline sull’acciottolato. Enrico Redaelli (1908-1964), che fu vice del sindaco DC Umberto Villa, specchiava bene questa esuberanza: subentrò al padre Rinaldo già nel 1932[7], rischiò clandestine navigazioni da Lecco in tempi bellici per garantire carne e sale alla mensa dell’albergo Trezzo. L’infelice posizione, alla spalla del ponte trezzese, espose l’esercizio al bivacco dei soldati. Al valico di queste difficoltà lo affiancava la moglie Maria Giussani[8], che consegnò l’esercizio alla terza gestione dei figli Rinaldo e Carlo Redaelli fino alla cessione (1980). Ma ora, dopo l’abbandono, è tornato il vino nuovo nelle antiche cantine dell’albergo Trezzo diventato Best Western hotel Villa Appiani.
(Da Ditte e Botteghe del Novecento a Trezzo, ivi 2012).
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[1] ATC, Moderno, 15.4.2.
[2] La nota come il prospetto genealogico dei Redaelli è tratta da Patrizia Ferrario, Italo Mazza, Case da nobile in Trezzo e Concesa, Trezzo 1999.
[3] L’intervista all’omonimo nipote Rinaldo Redaelli risale al 30 luglio 2011.
[4] Tra gli anfibi abitanti della Valverde Cornelio Zaccaria riforniva di pesce l’Albergo Redaelli. Era detto «dal Biba» per la breve treccia, menzionata in dialetto, che nonno Sala usava portare. Il suo nome storpiato a grado militare, «Curunell», proporzionava il «Sargent» da cascina Belvedere; anch’egli fornitore di pesce all’attività. Questo Comotti «Chinàll» si chiamava Gaetano; nome che, masticato dal dialetto, passa da «Tanìn» a «Tanènt» e para in «Sargent» perché l’assonanza di mostrine pareva eccessiva. Sergente sì ma non tenente.
[5] Malgrado la clientela inamidata, Enrico Redaelli sfamava a mezzodì alcuni bisognosi, che si accodavano alle cucine per un frutto, del brodo e un tozzo di pane.
[6] Cfr. AAVV, Carnevale e il Povero Piero, Trezzo 1994; Cristian Bonomi, Pelle di sacco e morte di fuoco in Informatore Comunale, Trezzo giugno 2011.
[7] Non furono coinvolte alla gestione le quattro sorelle: tra loro Giulia sposò Paolo Perego (1901-1954), figlio di Carlo «Palatée» che possedeva diverse attività in via Dante.
[8] Parenti suoi, Carlo Giussani e il padre Alberico, gestirono fin dal 1927 la drogheria con annesso bar di Valverde 2. Al primo Novecento, reggevano l’esercizio Angelo Lancrò col figlio Abele.
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