Rainini, fratelli socialisti alla Grande Guerra

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Quando la parola «Pace» divenne sovversiva. Le lettere inviate al trezzese «Comitato di Preparazione Civile», retto dalla nobildonna Margherita Trotti Bentivoglio Bassi, raccontano la Grande Guerra combattuta da due fratelli socialisti.
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Angelo Rainini
I fratelli Rainini: Bibbia e socialismo

Classe 1870, Angelo Rainini porta al collo il fazzoletto da lavoro, annodato come le cravatte dei signori. Con mani contadine sfoglia i pochi libri che rilegge molto: tra gli altri, una Bibbia da cui ama citare il versetto «Fermati, o sole!» (Giosuè 12,10). Abita la corte rustica di casa Bassi, abbattuta nel 1965 per costruire il condominio «Sant’Antonio», porticato e in mattoni su piazza Libertà. In quella casa, Angelo resta giovane vedovo di Virginia Stucchi dal 1898 ma i figli Giuseppina, Giuseppe e Giovanni gli consolano il lutto.

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Via di Bitetto intitolata a Suor Clelia Rainini (1892-1955). Nata a Trezzo sull’Adda, SI trasferì a Bitetto nel 1946; ha assistito poveri e sofferenti nell’ospizio di mendicità e nell’infermeria dell’Opera Pia Purgatorio

La primogenita prende il velo col nome di Suor Clelia, assistendo dal 1946 malati e indigenti presso l’ospizio dell’Opera Pia «Purgatorio» in Bitetto (Ba), Comune che le intitola una via. Del Rainini, i figli maschi hanno invece la curiosità per le idee scritte nei libri. Il socialismo cui aderiscono non è una fede confusa ma fusa con il cristianesimo. Se i poveri guariscono all’infermeria di Suor Clelia, Giuseppe e Giovanni credono in una fratellanza sociale, guarita dalla povertà.

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Virginia Stucchi
Il coraggio disarmato di Giovanni Rainini

Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915, nessuna parola è più sovversiva di «Pace». Eppure i fratelli Rainini la pronunciano, partiti in divisa per le trincee. Già alla visita di Leva, Giuseppe (1894-1971) muove un commento irriverente all’istituzione militare; e busca uno schiaffo dall’ufficiale medico.

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1918, Lettera di Giuseppe Rainini a donna Margherita Bassi

Quattro mesi prima che termini il conflitto, Giovanni (1896-1925) viene processato perché si rifiuta di combattere oltre: un coraggio disarmato, il suo, punito con violenta severità. Lungo la militanza, i Rainini scrivono a Margherita Trotti Bentivoglio ved. Bassi, di cui sono fittavoli. La nobildonna è patronessa di un Comitato, istituito per il conforto dei Trezzesi al fronte. Tra centinaia di altre lettere, l’archivio Bassi ne conserva così dodici riguardo i fratelli soldati, rianimandone la vicenda.

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«Carissima Padrona». Così esordisce per iscritto Giovanni, riservando a Donna Margherita una riverenza quasi affettuosa. Alle volte, si firma «paesano» nel senso dialettale di «contadino». Giuseppe chiude invece con un «Arrivederci vittorioso». In licenza, entrambi i fratelli fanno visita a casa Bassi ma il maggiore dei due ha calligrafia più salda, riferendo per lettera anche circa il minore. Margherita invia al fronte le maglierie confezionate dalle donne trezzesi, cui distribuisce lana grezza. Nel settembre 1915 registra quanto spedito a Giuseppe, sulle Dolomiti col 7° Artiglieria da fortezza, batteria cannoni. «Creda che per noi è confortante sapersi così ricordati  e quanto servirà di sprone per l’adempimento del nostro dovere – ringrazia il giovane – Quello che c’è di male è questo. Nevica sempre e fa molto freddo. Però ho sempre coraggio».

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Giuseppe Rainini con moglie e primogenito

«Crista che fam de lader». Giovanni milita sull’Adige col 207° Fanteria quando, nel maggio 1916, cade prigioniero dagli Austriaci. Lo internano al campo di Mauthausen, poi ricostruito dai Nazisti, vicino alle cave del granito che pavimenta i viali di Vienna. L’Austria non ha risorse per sfamare i militari catturati e Luigi Cadorna, Capo di stato maggiore, scoraggia il sostegno italiano ai nostri prigionieri: li sospetta anzi d’essere disertori consegnati al nemico.

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Giovanni Rainini

«Kriegsgefangenenlager» è il nome tedesco dei campi che, con accento dialettale, i Lombardi pronunciano «Crista che fam de lader» (Cribbio che fame ladra). Tra loro, Rainini riceve gli invii dal Comitato di Donna Margherita: «Sono a ringraziarla del bene che mi ha fatto; la fame che mi ha levato, in questa terra barbara. Vorrei contarci un po’ il bel vivere ché ci danno da mangiare in Austria un mestolo d’acqua calda alla mattina, un po’ al mezzogiorno e un’aringa alla sera; un po’ di barbabietole e per il pane, 100 grammi. Come fa a vivere un uomo, così? – lamenta il Trezzese – Poi ci fanno dormire per terra, scalzi, niente per coprirsi, maltrattamenti; pareva Cristo in croce; e lavorare per forza». Oltre alle fatiche forzate in cava, Giovanni sembra citare la tortura del palo, cui il prigioniero viene legato mani e piedi a poca altezza da terra perché il corpo si inarchi; quasi in crocifissione.

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1917, Postale dalla prigionia a firma di Giovanni Rainini
Mauthausen, Belgrado, Trofaiach: la prigionia di Giovanni

Dopo un anno e mezzo di prigionia nei tre diversi campi, dove contrae la tubercolosi, Rainini è ricoverato a Monza dal febbraio 1918 presso l’ospedale militare «San Giuseppe». Malgrado la malattia, viene reintegrato nei ranghi dal giugno successivo. «Di salute sto poco bene, perché è già un po’ di giorni che ho la febbre e poi mi tocca montare sempre di guardia notte e giorno anche colla pleurite secca – scrive Giovanni a donna Margherita – Sono andato a passare la visita e mi hanno cacciato via come un cane. Io mi metto in le sue mani, perché se rimango qua sono sicuro che ci lascio la pelle».

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Fotografia di Giovanni Rainini, retro. Lo scatto proviene dal municipio di Carpi Emilia dove il soldato viene internato per quarantena e interrogatorio, come consueto nei casi di rimpatrio dalla prigionia nemica

«Voltai la testa e mi rifiutai». Quando nel luglio 1918 viene destinato sul fronte occidentale, a Rainini cade il fucile di mano: «Martedì è venuto l’ordine di pigliare i vestiti nuovi e anche l’altra roba da cambiarsi per partire per la Francia ed io mi sono rifiutato di vestirmi – racconta il giovane – voltai la testa e mi rifiutai anche io insieme ai compagni. Il Capitano mi ha messo in prigione e sono sotto al giudizio». Margherita Bassi ricorre all’On. Steno Sioli Legnani che, da Roma, risponde: «Giustamente la giustizia, e specie quella militare, non tiene conto delle raccomandazioni dei deputati».

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1918, Lettera dell’On. Steno Sioli Legnani a donna Margherita circa il fante Giovanni Rainini

La nobildonna si appella anche ad Alessandro Santangelo, Capitano del soldato Rainini e unico testimone al processo, celebrato in Firenze il 6 agosto 1918: «Per certe mancanze sono senza misericordia – ribatte l’ufficiale – Non avendo risparmiato me, non posso risparmiare gli altri». La corte condanna Giovanni al minimo della pena, due anni di reclusione, da scontare a guerra finita. Il 3 agosto 1925 è libero di morire, per la tubercolosi contratta in prigionia.

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Ringrazio la famiglia Rainini per le condivise memorie di Giuseppe e Giovanni; Lorenzo Bassi per l’accesso all’archivio di donna Margherita, cui i Trezzesi spedirono dalle trincee i postali consultabili sul Portale di Storia Locale.

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L’articolo è pubblicato sul Notiziario Comunale “Città di Trezzo sull’Adda”, n. 1 del 2016, marzo.

 

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