Dagli scaffali della biblioteca carmelitana in Concesa, sopravvissuta alle spoliazioni, la cinquecentina di Giovanni Battista Ramusio narra le esplorazioni per mare dall’età classica al Cinquecento: il naufrago di Piero Quirino.
In convento, la preziosa cinquecentina del Ramusio. Due volte soppresso, il chiostro concesino dei Carmelitani Scalzi conserva intatto il suo cuore sapiente. E’ la biblioteca che, durante le forzate assenze dei Padri, ne recava all’ingresso gli inviolati sigilli. La chiesa fu spogliata, i saloni alloggiarono telai e le celle gli operai che vi lavoravano. La biblioteca no. Tre secoli e mezzo hanno arricchito e impolverato i suoi scaffali, cui si accede salendo metaforici gradini dal calpestio claustrale.
Nel 1987 Padre Gerardo Bongioanni rinveniva qui il secondo dei tre volumi intitolati «Delle navigationi et viaggi» (1583) in cui Giovanni Battista Ramusio raccolse esplorazioni testimoniate tra l’età classica e il ‘500: nomi oscuri affiancano così quello di Marco Polo. Compongono l’opera 31 fascicoli ma mancano alcune pagine iniziali, che Padre Gerardo integrò in copia da altre biblioteche. Quello che più lo appassionava era il viaggio del veneziano Piero Quirino, naufrago sulla rotta delle Fiandre nel 1431. «La sua storia dimostra come la Provvidenza di Dio mai ci abbandoni – sbottava il novantunenne carmelitano – perché attraverso vie spesso misteriose Egli ci conduce alla salvezza».
Messer Quirino, cui era da poco morto il primogenito, salpò da Candia con 70 uomini verso ovest. Aveva nella stiva 800 litri di malvasia, legno di cipresso, pepe ed altri preziosi. I danni di una prima tempesta li sanò a Lisbona. Ma altre ne seguirono, rompendo il timone e le vele della nave, ormai preda dell’oceano. «Tanto aumentò la rabbia del mare e dei venti – scrive Quirino – che stimammo quel giorno essere l’ultimo della nostra vita».
La ciurma abbandonò il vascello, dividendosi su due scialuppe. Una naufragò. Quella del gentiluomo veneziano sperava invece di raggiungere l’Irlanda. I marinai, costretti a bere urina o acqua salmastra, morivano rabbiosamente. E Quirino li confortava mostrando loro l’unico oggetto che avesse salvato: «un crocefisso che mai mi abbandonò né io lui». La barca si sfasciò su uno scoglio innevato, dove l’equipaggio si saziò di neve e scovò una piccola baracca deserta. Era quella dell’allevatore norvegese che abitava una vicina isola di pescatori ma teneva qui il bestiame.
Ogni diffidenza cadde quando il cappellano domenicano del villaggio barattò qualche parola latina con Quirino: i morti avrebbero trovato sepolture e i superstiti ricovero. Non erano che dieci. Lavorarono tre mesi al fianco dei pescatori che, nel 1432, li accompagnarono in barca ad un gran mercato.
Qui orecchiarono il nome di un veneziano, Zuan Franco, stabilitosi in Svezia. Lo raggiunsero. Fu suo figlio Maffio a rifocillarli, indicando loro la via del rimpatrio: verso Londra. Anche qui strinsero la mano di un mercante italiano, Vettor Cappello, che li sorresse nell’ultimo tratto di viaggio. «Giungemmo infine al desiderato porto della Patria nostra, dell’alma città di Venezia». A compattare l’Europa erano allora la croce, il latino e la mercatura.
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