L’officina Lecchi, quando i contadini saldavano a fine mietitura la parcella del guasto al trattore. Da una famiglia di carrettieri e falegnami alla discendenza china sui motori.
Ai 200 automobilisti trezzesi, che pagavano la benzina 128 Lire al litro, l’officina Lecchi di Mario (1930) inviò gli auguri natalizia per il 1953: e, con quelli, un annuncio. «Ci pregiamo portare a Vs. conoscenza l’apertura della ns. nuova AUTOFFICINA in via Luigi Galli, 3. Certi che ci onorerete dei Vs. ambiti ordini i quali verranno da noi eseguiti in modo di Vs. completa soddisfazione».
Sull’agenda dell’innevata officina Lecchi, che aveva solo una stufa a segatura, il primo cliente annotato è zio Nino Ravasio per la revisione al motore del 5 gennaio 1954. Già ragazzo, Mario si chinava sulle auto del garage Carrera. Accudiva veicoli dal nome dannunziano (Augusta, Ardea, Aprilia) ma anche le Balilla; salvo perfezionarsi in divisa di Leva tra i carristi, ad Avellino.
Tornato trezzese, revisionava i motori ogni 40mila chilometri nella giovane officina Lecchi, che ricoverava anche moto e qualche trattore il cui proprietario saldava la parcella a fine mietitura. Mario vegliava le ore vespertine dopo chiusura sulle revisioni, che pretendevano il riassemblaggio delle parti: pulite soffiando, senza compressore, e ingrassate con le dita. Affidato al corriere Giombelli, il motore rientrava dalle officine milanesi Tartari pronto per essere ricollocato.
Ma specie di sabato e alla domenica mattina il lavoro era tanto che Mario chiamò il fratello Riccardo (1939) perché gli reggesse un pezzo nell’officina Lecchi: e lì rimase a spezzare con lui il quotidiano pane del lavoro[1]. Nel 1956 aggiunsero ufficio e autolavaggio all’edificio, poi rialzato in abitazione[2]. E per accelerare il soccorso stradale ai clienti, nel 1963, ritirarono per 500mila Lire una jeep Willys del 1942[3]. Il garage in «strada növa» (come la chiamavano) provvedeva a Bergamo o da Canonica i ricambi, adattati sui banchi dell’officina Lecchi che papà Giuseppe Edoardo detto «’duardìn» (1897-1984) aveva intagliato nell’olmo. Per l’attività dei figli rifinì anche scansie e snelli tavolini con le mani contadine.
Il “nonno” dell’officina Lecchi: un falegname che rubò onestamente il proprio lavoro
Edoardo era nato in «Cà Bianca» (via Brianza allora, oggi Dante) da Pietro, carrettiere brembatese sulle tratte dalla Valle Brembana alla Francia. Accanto a casa gli aprì bottega il falegname Francesco Consonni[4], cui «’duardìn» rubò il mestiere con gli occhi, malgrado il suo restasse la terra. Almeno finché non acconsentì all’offerta del cognato Emilio Colombo «Cantum»[5]: l’imprenditore edile, che costruiva già in prefabbricato, propose a Lecchi di intagliare i serramenti per i suoi edifici. Levigava manufatti anche a casa sul banco da falegname che, con l’inverno, spostava in cucina.
Congedava «baralìn» (l’inginocchiatoio delle lavandaie), mobilia a incastro, piccoli birocci, cucce per cani e soprattutto ruote da carro. Le cerchiava con un bordo in ferro rovente che doveva subito bagnare perché il legno non bruciasse. Al reparto ferrovie della OM montava invece le panche da tram prima di assumere le manutenzioni grezzaghesi dell’opificio Zoia e concesana dell’oggi Villa Gina. Edoardo abitava una parte della casa in via Martesana, edificata dall’impresa Colombo, con la moglie Maria dei Cereda detti «Custantèj» (1902-1996) che lo rallegrò di sette figli.
L’altra ala ospitava la discendenza del fratello Luigi. I primi sfollarono in via Verdi, contrada natale di Maria, mentre i bombardamenti americani cercavano il ponte autostradale nel mirino. Durante il gennaio 1945, un lancio mancato investì l’argine, sbalzando alcuni macigni su casa Lecchi. Edoardo ne fece un’edicola alla Vergine.
(Da Ditte e Botteghe del Novecento a Trezzo, ivi 2012)
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[1] L’intervista a Mario e Riccardo Lecchi data 23 luglio 2011, mentre in officina proseguono il lavoro Gianluca e Marcello, figli del primo.
[2] ACT, Cartella licenza edilizia 156. Il proprietario dei 1000 m2 risulta ancora Edoardo Lecchi, che li acquistò da certi Colombo, detti «Castalöo» per via del domicilio prossimo al castello.
[3] Soccorsero, tra gli altri, il circense Darix Togni la cui Fiat 1100 singhiozzava verso Brescia.
[4] ACT, Censimento fascista delle attività (1937).
[5] Emilio Colombo, marito di Luigia Lecchi fu Pietro, teneva impresa sull’angolo trezzese di via Quarto. Edificò qui silos per l’essiccazione, nel 1930 (ACT, Cartella edilizia 117); partecipando anche fuori città a opere importanti dell’epoca fascista. Gettò ponti nelle colonie italiane e finì prigioniero degli Inglesi in Kenya mentre suo figlio Gaetano (1922-2010), perito edile, lo era a Norimberga dei Tedeschi. La guerra ridusse al fallimento l’impresa dei due, che migrarono in Argentina dove l’erede brevettò piscine a tavolozza. Già prima di Gaetano (detto «Nino») nonno Luigi era stato nelle Americhe, forse aderendo a campagne d’esplorazione nell’entroterra. «Fece tre viaggi e, a ogni rimpatrio, sudava un cantiere sull’angolo delle vie Milazzo e Garibaldi in zona “Lazarètt”. Chiamò “Invidia” la prima corte, che ne sortiva parecchia nei suoi rivali: la seconda “Rabbia”, per stagionatura dello stesso motivo. Aspettò un anno e mezzo prima di battezzare “Soddisfazione” la terza, che annodò tutte le malelingue». Così raccontava Gaetano Colombo per la bella intervista rilasciatami nel gennaio 2010. La famiglia, prolifica a Trezzo, porta il nomignolo «Cantum» perché proveniente dal Cantone di Bellusco.
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