Da quando riceve l’incalcolabile dono dei giorni e delle notti, ciascuno porta in sé la propria origine come un segreto. Non radici ma affluenti, gli antenati convergono in noi: farne memoria smaschera la superstizione della solitaria purezza.
Anziché immaginare la nostra origine come radice, immobile e arborea, dovremmo pensarla sotto la figura del fiume che percorre e non possiede (Cfr. Maurizio Bettini, Contro le radici, 2012). Apparteniamo tutti a una terra ma è volgare credere che ci appartenga. L’immobilità del coltello nel pane non giova al pane né al coltello.
La purezza della lingua è una presunzione ottocentesca che, clandestinamente importata in biologia, ha preteso la purezza del parlante: la primogenitura della razza ariana. Eppure, la purezza è una tara genetica per cui famiglie geograficamente o socialmente isolate praticano l’endogamia, sposando consanguinei in vario grado fino all’esaustione del cognome. Tutte le famiglie pure e originarie sono estinte. La nascita è impura.
L’origine superstiziosa
Desideriamo rinvenire come un reperto la causa prima che ci giustifichi, ma l’origine è solo una superstizione, retroflessa da quel desiderio (Cfr. Carlo Sini, L’origine del significato, 2004). La genealogia scansa i secoli, risale il tempo senza scoprirne le sorgenti: l’inizio, il punto zero resta sempre differito e non si concede alla nostra coloniale volontà di possederlo.
Sono solo l’ultimo anello in un’infinita catena di morti, la prua in fiamme della nave che affonda. Ma finché sono, e potrei anche non essere, riesco a onorare l’incalcolabile dono dei giorni e delle notti? Parlo nel silenzio dei miei antenati, quasi che mi reggessero il passo da sotterra; mangio al loro digiuno, presenzio alla loro assenza: perché io sia uno in più, vengono meno loro.
“Io sono gli altri il cui volto è la polvere“, dice Jorge Luis Borges. Per estinguere questo debito inestinguibile, alzare l’incenso del ricordo non basta. Se la mia costituzione, genealogica e plurale, procede dagli altri; il mio destino non può essere nella solitudine: io solo sono solo io. Devo rivolgere il “tu” al creato, dividere con l’Altro le cose e i pensieri, perché si moltiplichino. L’uno da solo non danza né può conoscersi; il primo numero è il Due. “Tu” è parola più originaria di “Io” (Cfr. Carlo Maria Martini, Il lembo del mantello, 2000).
Alcuni credono la parola amore discenda da a-mors, mortis: immortale come il coito, che presiede all’eternarsi della specie. Altri oppongono che il termine derivi da a-mos, moris: ingiusto come la passione che, a diversità di legge e morte, non vige per tutti ma sui due amanti soltanto. Eppure, amore non ha etimo: proviene dalle lallazioni del neonato, come la parola mamma, e pronuncia un bisogno originario. Ciascuno di noi è destinato agli Altri, dalla nascita.
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Ringrazio il maestro Agostino Arrivabene per la concessione a citare le sue opere.
Per approfondire:
- AAVV, Agostino Arrivabene – Isterie platoniche, Allemandi 2011;
- Maurizio Bettini, Contro le radici, Il Mulino 2012;
- Carlo Maria Martini, Il lembo del mantello, CAD 2000;
- Carlo Sini, L’origine del significato, Jaca Book 2004.
In argomento, su questo sito:
- Arte dell’essenziale, mettere in scena “l’osceno”;
- Omnis caro fenum, ogni carne è fieno;
- Silenzio, il centro vuoto su cui ruota la parola;
- Foucault, la genealogia dei filosofi;
- In latino, motti e ironie: dire perché resti detto;
- Vita paziente e memorie future;
- Giovanni Brambilla, sotto il cielo interiore;
- Il numero e la parola incalcolabile.
2 Responses
Pini patrizia
Letto con tanta commozione.Sto scrivendo un testo sulla mia genealogia e queste parole mi hanno suggerito un mondo,un’interpretazione feconda.
Cristian Bonomi
Grazie Patrizia! La genealogia è davvero un esercizio d’incontro e prospettiva. Con viva stima per la tua ricerca, Cristian