Giovanni Brambilla, sotto il cielo interiore

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Il pittore Giovanni Brambilla inaugura la mostra “Il sentimento del paesaggio” alle 16.00 di sabato 7 aprile presso il villino del castello visconteo di Trezzo sull’Adda, esponendo all’ombra antica della torre fino al 29 aprile. Patrocinata dal Comune, l’esposizione è visitabile da martedì a venerdì dalle 15.00 alle 19.00; sabato e festivi dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 15.00 alle 19.00. E’ il ritorno a casa dell’artista, nato il 4 gennaio 1943 a Cascina Casinéta, con la voce del fiume che saliva alle finestre.
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Giovanni Brambilla, l’ansa dell’Adda e il Castello di Trezzo (olio, 80×60)

Giovanni Brambilla e la poetica della gratitudine

La magia comanda che le cose cambino; la preghiera ringrazia perché stanno proprio così, come Giovanni Brambilla (1943) ama ritrarle. Per dipingere un paesaggio, lo raggiunge con passo di pellegrino: ne prende nota su carta e scatta qualche foto; sta almeno un’ora in contemplazione del luogo. Non ha il capriccio di cambiarlo ma vuole renderne grazie, con una Fede che è fedeltà al creato. Il voltaggio della sua pittura è la gratitudine. La Provvidenza mi ha amato, ripete tra i pennelli: pensa alla moglie Gianna Pravettoni, alle vette scalate con l’amico Giorgio Calvi, ai maestri Biagio Beretta e Giovanni Colombo da Busnago. Solo ringraziando, ci rendiamo conto di quanto abbiamo ricevuto.

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1964, Giovanni Brambilla in vetta con l’amico Giorgio Calvi

Giovanni Brambilla dipinge la piccola città, che è una famiglia grande; la costante freccia del fiume; lo stupore antico del cielo e della neve. Le barche sono sciolte da riva e tengono i remi a portata di viaggio. L’esercizio è la via giusta, dice il paesaggista trezzese, e la frase ha sapore quasi monastico. Eppure, la sua pittura di ringraziamento al cielo invita a tavola qui sulla terra. Solo quanto dividiamo con gli Altri si moltiplica, come il pane del miracolo. La piega alla tovaglia porta l’impronta del quotidiano, caloroso e frugale. Sulla mensa poggiano i giocattoli dei figli; le uova e il formaggio, una fetta d’anguria rossa come l’intensità di giorni non sprecati.

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2005, Giovanni Brambilla a Tokyo con l’amico monaco Setsuo Ijo

Il paesaggio incalcolabile

Se guardo un paesaggio, mi dimentico che ne faccio parte. Eppure, il mio sguardo non è innocente: vede ed è implicato in ciò che ha visto. Ciascuno impara a camminare dal luogo, dove apre per la prima volta le cinque finestre dei sensi. Il passo di chi nasca in montagna non è quello di chi sia nato sul mare. Per quanto lontano io arrivi, porto con me la mia origine: un paesaggio indelebile, che i Latini chiamano genius loci. La bellezza può molto presso gli uomini. Innalzare o abbattere qualcosa in un paesaggio abbatte o innalza qualcosa anche in chi lo abita. L’estetica è un’etica.

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I pennelli intinti nell’Adda, il fiume ritratto da Giovanni Brambilla

L’uomo antico teme la natura abitata dagli dèi e intrattiene col paesaggio un colloquio rituale. Sul Tevere, i Latini affidano il cantiere del Ponte Sublicio al collegio sacerdotale dei Pontefici; nel Medioevo, è l’ordine monastico dei Benedettini a disciplinare paludi e selve, che la leggenda narra infestate da spiriti, draghi o ninfe. Solo la trascrizione matematica della realtà manda gli dèi in esilio, calcola laicamente il paesaggio senza farne mitologia e sancisce la vittoria del numero sulla parola. La partita doppia succede così ai bestiari medievali. L’ascia cala alla radice delle querce, che non sono più sacre ai druidi; le cave cariano il monte, dove un tempo sedeva il dio; capricciose divinità, i fiumi si riducono a dispositivi idraulici.

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Giovanni Brambilla, la Centrale Enel “Alessandro Taccani” di Trezzo sul fiume Adda (olio, 36×26)

L’uomo moderno modifica il paesaggio a immagine e somiglianza delle proprie esigenze; con mano operosa, chiama gli elementi all’efficienza industriale. I calcoli non arrossiscono, contendendo alla natura il suo segreto: sul giusto prevale l’esatto; la liquidazione contabile del mondo si smarca dai giudizi morali. Persino la biografia si umilia a codice fiscale. Dal paesaggio mistico a quello inquinato, l’arte può ricollocare l’ansia produttiva dell’industria nell’antico rispetto per una natura sacra? I paesaggi fluviali suscitano in Leonardo da Vinci la poetica similitudine tra la circolazione terrestre dell’acqua e quella umana del sangue, annodando la dignità di ogni individuo a quella del mondo intero. Ai vortici del fiume, pare il maestro ispiri i ricci immortali degli angeli che dipinge.

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Giovanni Brambilla, l’Adda con la torre di Trezzo all’orizzonte (olio, 60×40)

Un quadro può lasciarmi assorto come se fossi davanti all’oceano. L’arte ha questa forza perché è disarmata: non elenca il paesaggio né lo colonizza; cosa ritrae è incalcolabile al numero e silenzioso alla parola. Nessuna veduta pittorica esaurisce la visione del pittore, che conosce il paesaggio senza mai finire di averlo conosciuto. Ogni opera è incompiuta, finché uno sguardo ammiratore non le dà compimento. L’arte mi con-fonde e mi fonde-con il paesaggio ritratto, dove le prolissità del numero e della parola sono sospese. Un quadro tra gli altri mi denuncia, convoca irresistibilmente una parte di me. Come può essere là fuori qualcosa di così intimamente mio? È, in fondo, la stessa domanda dell’amore.

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Giovanni Brambilla, Autunno sull’Adda a San Gervasio

Sotto il cielo interiore

Aria

Quando salgo in alta montagna, ciò che resta in basso mi sembra bassezza: noie, ombre, fraintesi. Importa solo cosa posso portare con me. Il pane e qualcuno con cui dividerlo sul sentiero; il vino dell’arrivo, quando scopriamo d’essere noi la cima del monte e riguardiamo i passi, che si sono spartiti la via. Ascendere in vetta è come riflettere sulla morte. Dalla quota di quel pensiero, l’altitudine dà proporzione alla vita quotidiana e orizzontale. Annibale, Petrarca, Cézanne, Nietzsche, Buzzati: in scarpe diverse, la neve senz’orma ci affratella a loro, intenti a un gesto perenne. Ammiriamo la cima con le dita a visiera sopra lo sguardo. Tendiamo la prima mano in una posa che è già di preghiera, se la uniamo alla seconda. L’incenso stupito degli occhi sale a Dio, anche quando non lo cerca? La pianura concede troppo fiato alle parole.

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Giovanni Brambilla, Nevicata a Cassano d’Adda (olio, 90×70)

Terra

Pedalando per i campi, faccio considerazioni da curato di campagna sul frumento appena segato; quasi che avere antenati secolarmente contadini bastasse a darmi la parola. Mi preoccupa lo strame. Resto convinto che, se ignoro il sapere primo dell’agricoltura, non posso dire adeguatamente di nient’altro. Il solco dell’aratro è già quello della scrittura, il pane è il primo alimento culturale. Dal grano in poi, l’uomo mette al lavoro il sole e la luna, si allinea operosamente coi pianeti; inaugura la domesticazione del mondo. L’agricoltura stanzia l’uomo, gli semina in petto un senso di appartenenza che è già Patria, dove seppellire i proprio padri; ma gli offre anche l’immagine di una Natura ciclica e materna, sotto cui pensare la morte come una stagione di invernali pigrizie.

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Giovanni Brambilla, Barche sull’Adda e particolari romanici a San Colombano di Vaprio d’Adda (acquarello, 35×50)

Acqua

Nel riflesso dell’Adda, il ponte si raddoppia in cerchio; ma non è facile sposare il fiume con questo anello. L’acqua prende la forma di tutte le mani senza farsi catturare mai da nessuna. È tua solo se le appartieni. L’Adda che gocciola dai remi è un fiume dal corpo di donna: tiene le dighe idroelettriche come pettini tra i capelli; e un pudore di nebbia le cade dalle curve fluenti. Porta in braccio alla corrente le cose arrese e lievi ma lascia che affondino quelle pesanti; leviga le azzurre tombe del fiume, posa a riva tesori e insieme miserie. Quotidiano miracolo, l’Adda scorre da secoli ai nostri piedi ed è la migliore metafora del tempo, che passa ma rimane. Questo fiume unisce le terre che divide e gioca, in nostalgiche foto, coi figli delle lavandaie. Non cerca semplici cittadini ma amanti.

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Giovanni Brambilla, Paesaggio umbro (olio, 40×30)

Fuoco

L’amore ci sorprende con l’inattesa forza degli incendi o dei temporali. Per i nostri avi contadini, terra e bestiame erano cure ininterrotte e le stanze troppo popolate non concedevano intimità sotto la luna. La loro unica sosta romantica era la pioggia: «L’amore si sveglia nel grigio del suo ritmo / e il cielo interiore ha un trionfo di sangue», scrive Federico Garcìa Lorca. La pioggia è incendiaria e, come il sentimento, non ci obbedisce. Forse per questo un tempo si preferiva la costruzione «fare all’amore», come si fa «a pugni» o si parla «a braccio» senza avere signoria sulle forze e le parole che ci sentiamo in petto. Ne conteniamo l’incendio perché diventi focolare ma l’amore, come la tempesta, accade fuori dal nostro comando.

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In cammino, Giovanni Brambilla con la moglie Gianna Pravettoni in Alto Adige

Etere

Smisi da ragazzo di andare con nonna alla messa natalizia di mezzanotte. Ma per vent’anni lei si tenne comunque accanto un tratto di panca libera per me, senza mai implorare o ingiungere che mi ci andassi a sedere. Da quando lo so, non manco di raggiungere nonna, che siede felice d’incenso. Eppure, la prima volta che mi presentai, lei non sollevò nemmeno un sopracciglio di stupore, perché sperava fino a credere in quella certa venuta. La sua attesa ha la sincera fragranza del pane, tutta la pazienza del lievito e la spezia dell’amore. Le parole passione, pazienza e pazzia hanno la stessa radice greca. Nonna nacque a cascina San Benedetto, nonno a Belvedere. Testimone il fiume, le due strade convergevano a un cippo segnavia: verso Trezzo, chi tra loro passava per primo ci poggiava sopra una pietra, perché l’altro capisse che era atteso in paese. Anche in montagna si posa un sasso per insegnare il sentiero a chi venga dopo di noi.

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Giovanni Brambilla, Trezzo ricordi (50×70)

L’amico pittore Giovanni Brambilla mette in anagramma le cose trezzesi che più mi ispirano. L’ulivo benedetto, da bruciare contro la grandine, lo appende al mistico architrave dell’ex-priorato di San Benedetto in Portesana. Sant’Antonio abate, protettore del bestiame; l’allegoria eucaristica che i confratelli del Santissimo indossavano all’altezza del cuore; sull’altare carmelitano di Concesa, la Madonna del Latte, ai cui piedi l’Adda scorre più fedele. Sono imperfettamente cristiano al punto che il mio nome ha tre quarti di bugia: eppure, riconosco che il rito non è superstizione se disegna il cerchio di una comunità attorno al centro del sacro, che è sempre vuoto e interrogativo. Un paesaggio grato e impossibile lascia i remi in barca, a portata di viaggio; anche il galleggiante («buscium») spera il fiume con immobile pazienza. La piega alla tovaglia è il passato che rimane, l’impronta calorosa delle cose imperfette. La poetica di Giovanni disarma e testimonia che si è felici per via di levare; basta una fetta d’anguria, rossa come l’intensità di giorni non sprecati. Al posto del cocomero, stavolta, Giovanni dipinge le uova: (pro)messe d’avvenire sotto l’irrevocabile falce del raccolto («scerscètt»). L’Adda ci rassicura come tutto sia secondo lo scorrere del tempo.

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