Il vino lombardo vendemmiato lungo l’Adda fino all’avvento della fillossera: una perduta pennellata del panorama fluviale.
Le uve dell’Adda per un vino lombardo. Perché la sbronza non finisse in rivolta, i Romani proibirono la viticoltura ai Celti. E neppure quelli, che fondarono Trezzo, ci coltivarono perciò la vite. Si contentavano di barattare uno schiavo per ogni botte di vino, che costava altrimenti 1000 sesterzi. Benché non sia fittamente documentata, la storia dell’enologia lungo l’Adda inizia nel ‘400.
Già allora, prima di insediarvisi, la blasonata famiglia Bassi affittava a Trezzo delle vigne per venderne il vino lombardo ai concittadini milanesi.
A narrarcelo è il dott. Alessandro Bassi, che riporta il racconto della prozia. La coltura di vino lombardo s’intensificò nel ‘600, quando fu preclusa la “vile“ mercatura ai nobili, cui non restava che investire in poderi o vigne del contado. Da quelle trezzesi ricavavano vini bianchi, frizzanti o corposi; qualità che li rendevano graditi anche ai palati esteri. Tanto che il «Moscatello d’Adda» e il «Passito di Castelbarco» rallegravano numerose corti europee.
Ancora nell’800 Giovanni Rajberti, autore de «L’Arte di ben convitare», osanna il rosso invecchiato di Busnago. Parrà strano, ma il vino lombardo scintillava nei calici dei signori. Almeno finché la fillossera non ne disperse le colture. Il fatale parassita giunse dalle Americhe, ancora vivo grazie alla rapidità con cui i bastimenti presero a solcare l’Atlantico. In precedenza la lenta traversata bastava a debellarlo.
Anche la viticoltura lombarda ne subì l’assalto. Ma i più prudenti innestarono le indigene su talea di vite americana o selvatica. La prima resisteva alla filossera. La seconda radicava meglio nei terreni più sabbiosi, che il parassita non aggrediva. E’ il caso della vigna carmelitana (a Concesa) dove s’innestò su selvatica l’uva bianca del «Moscatello d’Adda», vino lombardo spremuto fino a metà ‘900 nel torchio del convento. Lo si conserva ancor oggi, benché smontato. Rossi erano invece i grappoli che maturava la «Vigna del Colombaio», i cui sabbiosi terrazzamenti digradavano dalla cascina omonima.
Il vino lombardo in ripresa: varietà Clinto e unva da tavola Italia
Ermanno Comotti «di Stavanétt» (classe 1942) ci restituisce i nomi delle viti, innestate su selvatica, che vi coltivava col padre Cesare: «Bell’Uno», dal grappolo sodo e succoso; «Ze Bel Milan», dagli acini allungati; e il «Protettore Diretto». Tra i filari s’abbronzava anche qualche uva da tavola che, ricorda Ermanno, «mio nonno aveva riportato dal convento di Concesa». Quando si rapiva al bosco un nuovo terrazzamento, bisognava pulirlo, scavarvi un fossato, colmarlo di sterpi e coprirlo di terra. Qui si piantavano (a 1,20 metri di distanza) le barbatelle vendute da Alberto Pirovano, vignaiolo a Vaprio d’Adda, dove incrociò la celebre Uva Italia e la squisita Delizia di Vaprio.
Al terzo anno la pianta, ormai salda, fruttificava. Era coi Bonfanti («Fuschètt» e «Culumbee») che i Comotti spartivano la vigna del Colombaio. A settembre ammucchiavano i grappoli sul pavimento dei casotti, coperto di sacchi in juta. Li pigiavano a piedi nudi. E il colore dell’uva aveva tanta presa da tatuare, sui polpacci dei vignaioli, “stivali” che scolorivano solo dopo due mesi. «Una macchia di quel vino sulla tovaglia dannava le massaie – ricorda Tina, sorella di Ermanno – e anche sulle labbra lasciava un’ombra insistente».
Il mosto fermentava quattro giorni; di più e in tini coperti, se il freddo incalzava. Giornalmente ci immergevano le vinacce, perché cedessero zucchero al mosto, cui si aggiungeva anche quello di barbabietola per irrobustire la gradazione. 10 Kg aumentavano di mezzo grado alcolico 10 q di mosto. Intanto si saggiavano le botti, di rovere o castagno. Le acquistavano a Trezzo, dall’oste Giovanni Ponzoni («Giuanöo») o da «Lazarin Sagiunee» (Lazzaro Villa, bottaio in Valverde). Oltre alle botti da vino e per la «ganga» (liquami), questi piallava persino bare. Il Ponzoni rivendeva invece i barili del rosso (perlopiù marsalato) che mesceva ai clienti.
Due giorni prima di versarvi il vino lombardo, la botte veniva colmata d’acqua per avvicinarne, dilatandole, le doghe. E la si rotolava con dentro una catena che grattasse via il tartaro. Nella botte chiudevano poi un biscotto di zolfo acceso: se si spegneva, il legno era intaccato da muffe che avrebbero inacidito il vino. Andava perciò lavato con delle vinacce finché la prova non lasciava lo zolfo accesso.
Con secchi di rame o zinco si travasava allora il vino lombardo nelle botti, dove la fermentazione proseguiva altri 40 giorni. Le doghe assorbivano però parte del versato che, a contatto con l’ossigeno, sviluppava la fioretta. E’ una muffa, simile alla panna di latte, che riduceva l’alcolicità del rosso su cui galleggiava. Per evitarlo, le botti erano rabboccate con il Torchiato: un vino ottenuto dalle vinacce di nuovo spremute nel torchio dei Colombo («dala Rüsa» in via Dante) o, a Concesa, dai Carmelitani. Il fioretto avrebbe abbattuto la già scarsa gradazione di questo vino lombardo, che s’aggirava sui 10 gradi. Se ne potevano levare i primi brindisi già a San Martino (11 novembre). A febbraio invece il vino andava trasfuso in un’altra botte, perché il fondo riprendeva a muoversi. Più che la filossera, a dimenticare queste faticose vendemmie fu la stessa Trezzo, quando contadina si convertì operaia. Insieme alle vigne, il panorama lombardo perse allora il colore dei gelseti.
2 Responses
lena maldone
Grazie Cristian …che bello saperne un po’ di piu …Ponzoni(mio fornitore di acua in bottiglie di vetro) a tutt’oggi e’ ancora nel ramo con la sua grande rivendita di vini acqua ecc. !
Cristian Bonomi
Grazie a te, Lena! Ponzoni è cognomi di osti, a Trezzo, già dalla prima metà del Novecento. Versavano “da Giuanoo” e al “Bar Italia” i primi vini grossim dal Sud, nei bicchieri cittadini.