Vigne dell’Adda: storia d’acqua e vino

Vigne dell’Adda e gelseti: colori del panorama perduto

Il tempo è un pittore. Ha dipinto Trezzo al posto delle querce che ombreggiavano le rive del Lago Trizio, tuffato un tempo nel Lago Gerundo da una cascata di 40 metri: là dov’è oggi Villa Gina. E ha dipinto Crespi d’Adda su fitte edere e robinie che il calesse dell’omonimo fondatore traversò in un mattino ottocentesco. Le querce scomparvero e a sostituirle la robinia venne solo poi, dalle Americhe. Di che colore era allora Trezzo qualche secolo fa? Certo color di Adda, di bosco e di frumento dagli steli più esili e alti degli ordirei: il granturco invece non sparse il suo colore che dal Seicento. Ma Trezzo era anche le gelsi e uve da vino, tonalità ormai sfumate dalle nostre cartoline. Dove arrotondavano i loro grappoli le vigne dell’Adda?

 Vigne dell’Adda, vini del Manzoni
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Planimetrie degli scavi in Sallianense, condotti dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Nel ‘500 il «Moscatello» era un vigneto coltivato alla periferia di Trezzo, non distante dalle altre vigne dell’Adda. Faceva parte del beneficio di San Michele in Sallianese, sito archeologico studiato dal 2006 non distante dal casello autostradale. Il «Cavalasco», dalle parti di Pozzo d’Adda, la «Gininella» e la «Maffoletta» erano tra le molte vigne allora proprietà della Confraternita trezzese di Santa Marta. Nel 1720 il paese contava ben 50 ettari a vigneto. Il fatto che nel 1839 Alessandro Manzoni carteggi con Luigi Pecchio di Concesa per piantarci viti di Toscana e bianche di Borgogna («pineau blanc», dice don Lisander) rivela poi che la produzione locale non era tutta di locale consumazione. Anzi. Famiglie come la Bassi vendevano vini spremuti soprattutto dai vigneti digradanti verso l’Adda.

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Uva Clinto

Il «Ronchetto delle Rane» in via Visconti o la «Vigna della Rocca» sono toponimi naufraghi di quel passato: vere vigne dell’Adda. Allora (nel 1867) una pertica di vinato era stimata £ 50 contro le 40 dell’aratorio o le 16 del bosco. Fu solo dal 1870 che, in congiuntura con la crisi agraria, la filossera prostrò le viticolture non solo trezzesi. Non era che un parassita ma guastò tutti i vitigni, meno quelli innestati su talea di vite americana. Varietà d’uva raffinate dai secoli vennero perlopiù rimpiazzate dal Clinto. «Era un rosso così pregiato – ironizza l’anziano Pietro Possenti, ex-oste di Cassano – che vi ammollavano 15 giorni i vestiti, perché li tingesse». Qualche decennio ancora scampò a Concesa la sola vigna dei Carmelitani, accudita da Padre Felice Colombo e Fra Camillo, che ne vendemmiavano un eccellente vino bianco. Ma a vite, nel 1979, non c’era che un ettaro per tutta Trezzo.

I vini del Lungadda sono tanto noti a Milano che, in una sua poesia (Brindes de meneghin a l’ostaria per l’entrada in milan de sova s. c. maistaa i. r. a. Franzesch primm in compagnia de sova miee l’imperatriz Maria Luvisa), anche Carlo Porta elenca rossi e bianchi delle campagne lombarde: ad esempio, «quell de Vaver posaa e sotanzios» (ringrazio della segnalazione Giuseppe Pezzi).

La fillossera mortificò una secolare selezione di uve che, irrobustendo la polenta quotidiana, garantivano una produzione vinicola pur distante dagli standard qualitativi di oggi. Questa economia era così incidente che la fillossera si profila come un allarme sociale, di cui le Prefetture del Regno d’Italia si occupano assiduamente: «Qualunque cura e precauzione per impedire l’invasione e la diffusione di siffatto flagello non è mai superflua», dirama quella di Milano il 30 luglio 1880 (ASMI, Prefettura di Milano, Carteggio generale amministrativo, 6461).

Per approfondire:

Italo Mazza e Jone Riva, I vini del feudo e la vigna prediletta dal Manzoni ;

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