“Giambellino”, la tradizione della modernità

Il Giambellino dei Colombo detti “Ignasi“: la storia del cuoco granatiere che non riuscì a stagionare i salami ma, insieme alla tavola calda, aprì le bocche dei Trezzesi ai primi toast della cucina moderna.
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L’interno che fu del Giambellino, in colori nostalgia (Foto Giovanni Colombo)

La storia del “Giambellino”, affacciato sulla strada asfaltata, inizia lungo i sentieri sterrati. Nino, il cavallo nero, lo rincasava addormentato dal notturno servizio di carrettiere per l’Orobia: e l’indomani Carlo Colombo detto «Ignasi» ripartiva mattiniero dalla cascina Cassinetta verso le fornaci dove impastare mattoni. Un lavoro solo non basta. Uscendo, Nino salutava i figli Enrico Natale (1911-1996) e Ferdinando, garzoni della salumeria Monti; proprio sull’altro lato di via Carcassola, che allora chiamavano «Umberto I». Enrico era tanto alta da finire tra i Granatieri di Sardegna del primo reggimento, quando la guerra deflagrò.

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Il granatiere Enrico schivava qualche proiettile, badando al rancio sul fronte greco e in Etiopia ma la morte non lo prese con sé. Una volta scoprì i commilitoni, attardati in uscita, vittime di un agguato lungo la notte africana. Lo raccontava, il reduce Enrico, ritrovando il mestiere di macellaio alla cooperativa trezzese «La Proletaria» in via Giovine Italia 6, dove già sorgeva la Casa del Fascio.

Deposto quel coltello, si propose alle dipendenze dell’amico Angelo Mazza, che lo incoraggiò invece a rilevare un esercizio in proprio a Liscate dove i Colombo «Ignasi» trasferirono verso il 1950. Chiamavano «butegum» l’emporio su via Principale d’incrocio con via Roma, dove Enrico parcheggiava una Balilla usata. Tolse le ragnatele, che il dialetto chiama «ragnèr»; posò le piastrelle e oltre alla licenza per bassa macellazione ottenne quella di latteria.

Accodava clienti specie per gli insaccati che, addormentandosi, sognava di legare nuovamente a Trezzo. O meglio, in frazione Concesa, dove aveva un frutteto con due robinie d’ingresso su via Marconi, quando il cavalcavia era asfaltato solo per metà e in autostrada si entrava da via Verdi. Il rustico per gli attrezzi l’avrebbe accomodato in macello, dietro l’emporio cui accostò poi il servizio di ristorazione (1959). Ma l’aria concesina era troppo secca per stagionare salumi e, dopo qualche tentativo, convertì il progetto.

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Con entrata indipendente, raddoppiò l’emporio in una tavola calda. Nata alla cascina Cascinazza, sua moglie Giuseppina Villa (1912-2000) temeva diventasse l’ennesima mescita per ubriachi: Enrico la rassicurò, proponendo varie novità al bancone che i Trezzesi chiamavano «da Ignasi». Qui stupore e appetito aprivano la bocca ai primi toast mentre una Wunderbar (ancora funzionante) addensava frullati e frappé.

Malgrado fuori la strada fosse sterrata, l’interno del locale aveva eleganza cittadina grazie ai figli Costantino e Carlo Colombo, che frequentarono un corso alberghiero in Milano. Il caffé della Faema E61 scioglieva lo zucchero in cubetti, insolito quanto la macedonia flambè che dalla cucina Enrico preparava per gli sposi festanti al secondo piano. Saziava il loro mezzodì con insalata russa, trota ripiena e  pollo arrosto, nel cui grasso friggevano anche le patate novelle. Il ribattino serale era di ravioli in brodo, formaggi e torta. Al piano terra, intanto, specie i giovani bergamaschi consultavano le 32 selezioni del juke-box scegliendo sempre «La ballata del Cerutti» di Giorgio Gaber. Per via del verso «gli amici al bar Giambellino / dicevan che era un mago», l’esercizio su via Marconi si chiama ancora oggi così: Giambellino.

(Da Ditte e Botteghe del Novecento a Trezzo, ivi 2012).

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