Mettersi ai remi da Trezzo a Venezia su questa Adda navigabile: sei operai, ventenni nell’estate del 1956, compirono l’impresa per la terza volta. La carezza del remo per un fiume dal corpo di donna. L’Adda sinuosa come una serpe cui il Po schiacci la testa, le secche riarse e il vino nella gola della sete. Ecco gli amanti di un fiume cui i turisti non bastano.
Forse fu l’imprudenza a mettere sei ventenni di oltre cinquant’anni fa su una barca: la Ines – Valverde, ormeggiata ancora su un’Adda navigabile. Da Trezzo Gigi, Luciano, Antonio, Luigi, Bruno e Giovanni conquistarono Venezia ai remi il 17 agosto 1956, e poco importa se era venerdì. Ci misero sei giorni di sole, secche, sete, remi e zanzare. Pure, il loro coro di fatiche dimostrava che i fiumi non sono fogne ma arterie, vive se vissute da chi ci nasce accanto.
«Sei uomini in barca» titola L’Unità del 12 agosto 1956. E i sei si affacciano da una foto scattata al nolo barche di Carlo Colombo «Cantun» che, insieme al «Gila» (Ciocca), ormeggiava sull’Adda navigabile di Trezzo 24 natanti in legno. Quella domenica, alle 6.30, sei giovani operai sorseggiavano un cognac all’osteria «Due Merli» prima di salpare per Venezia. Una barca del «Cantun», battezzata «Ines-Valverde», li aspettava sul naviglio Martesana, accanto al santuario carmelitano di Cocesa, dove l’equipaggio seguì la messa. Avevano concepito l’impresa a «Cava dal Bes», una spiaggetta di Capriate. E’ qui che si sdraiavano sotto il sole delle domeniche estive. Discutevano d’ecologia quando Gigi Scudelletti propose di conquistare Venezia ai remi, come due anni prima il dott. Luciano Carminati aveva fatto sulla «Goliardica». Lui c’era andato coi suoi compagni di studio. Ora toccava agli operai. Oltre a Gigi, il capitano, ce n’erano due da Vimercate: Beretta Giovanni e Perego Bruno, imbarcato benché senza una gamba ed estensore del diario di bordo.
Anche al primo raid Trezzo-Venezia, datato 1931, aderì un trezzese nelle stesse condizioni: Mario Rota, nondimeno nuovatore provetto e trionfatore alla Coppa “Franco Scarioni”. Il 21 agosto 1931, con lui conquistarono la laguna a remi (9.05) Pietro Cavallari, Giuseppe Chiovini e il visionario capo-ciurma Carletto Colombo (poi caduto volontario sul fronte Jugoslavo); tutti salpati da Trezzo alle 5.30 del 17 agosto. Anche loro ispirati dal predecessore Pieralessio Pandini che, il 4 agosto 1930, era giunto a Venezia da Trezzo dopo sei giorni di voga, inaugurando la tradizione remiera (informazioni tratte dal Corriere della Sera).
Nel 1956 a completare la ciurma erano Comotti Luigi «Mavarin», Albani Antonio «bagai dal Pippo» e Scotti Luciano «bagai dal Magnaa» (magnano). E’ stato il bel dialetto di questi ultimi due a cantarci la traversata. Luciano (classe 1929) era marmista, anzi «marmurìn», come i suoi antenati scalpellini Enrico e Vitagliano che nel 1859 sforarono alla base la torre del castello trezzese. Una stele corsiva precisa che ci misero cento giorni e il soprannome degli Scotti, «Èrcui», ricorda forse quell’erculea fatica. Antonio, nato nel 1931, ha lasciato la sua giovinezza lungo l’Adda che ripensa limpida e viva. Anche lui verso il 1942 raggiunse in bici un cantiere lecchese per ridiscendere il fiume a bordo della barca che il Ciocca aveva commissionato lì: la «Città di Milano», ammiraglia dell’intera flotta.
Del Colombo, Albani rammenta invece l’impegno nella Resistenza: «lasciava sulla riva la barca Adele con i remi dentro – racconta – i partigiani la usavano per raggiungere l’argine bergamasco, di notte. E il giorno dopo Carlo mandava un ragazzo a recuperare il legno che pareva accidentalmente disormeggiato». Infine ci esemplifica i nomi vezzosi delle barche Colombo (Adele, Ines, Carla) e quelli più selvatici delle barche Ciocca (Bisbina, Viperina).
Navigati lupi di fiume per l’Adda navigabile
Fu un’impresa audace, anche nel senso di incosciente: Antonio e Luciano convengono che, se avessero contato prima tutti gli ostacoli incontrati, il loro numero li avrebbe trattenuti dal partire. Eppure raggiunsero Venezia in una puntuale settimana. La barca misurava 6 metri scarsi, aveva un timone e due posti di voga a cui l’equipaggio si succedeva in turni di mezz’ora lungo l’Adda navigabile. Anche se spesso i fiumi erano tanto magri da appiedare i vogatori, cui toccava trascinare il natante. I sei percorsero il naviglio Martesana fino a Canonica. Da qui raggiunsero via Adda Groppello dove un camion li scortò a Cassano, vero confine con l’avventura. Gli amici che li avevano festeggiati fin lì s’erano ormai congedati. Già a Rivolta la secca costrinse i giovani a strascinare la barca. Il dott. Carminati li raggiunse, scoprì che uno dei marinai era invalido e consigliò loro di rincasare. Per di più la siccità li avrebbe costretti a zigzagare per i canali navigabili invece di procedere diritti sul Po che lui, nel 1954, aveva avuto la fortuna (o l’accortezza) di solcare in una stagione meno asciutta.
Ma dopo aver movimentato la Coop, l’Anpi, la Fgci, il Circolo «Popolino» e persino il Comune di Trezzo, quei ragazzi in laguna ci sarebbero arrivati. Anche a piedi. Il dott. Carminati desistette, raccomandò loro di non bere vino e affidò a Scudelletti alcune fiale ricostituenti da iniettare a chi cedesse al sole o alla fatica. Disgraziatamente sul Po l’acqua era spesso più cara del vino, che l’equipaggio s’adattava perciò a bere. Mentre del capitano Gigi le brusche mani armate di siringa erano una minaccia sufficiente a rinvigorire i rematori. A congiurare con il sole, le secche e le zanzare ci si misero poi i ponti di barche, il cui pericolo si presentò a Cavenago d’Adda. «Dopo una curva che lo celava, l’improvvisa corrente ci avrebbe schiantato contro un ponte di barche – dice Scotti, che era al timone – tre di noi si tuffarono e, afferrate le funi ai due estremi del natante, nuotarono verso riva».
I tratti di secca e l’imbocco dei canali lungo il Po affaticarono il tragitto, che doveva scandire cinque mete quotidiane: Pizzighettone, Guastalla, Ficarolo, Bottrighe e Venezia. Sveglie anche alle 4.30 e fugaci colazioni a pane e salame contennero il ritardo. Ma a bordo la fatica azzittiva la conversazione e il silenzio moltiplicava l’afa. Se non trovava un pernottamento nei paesi sfiorati, l’equipaggio s’accampava sull’argine, popolato di giorno da poveri pescatori. «Non parlano – nota Bruno sul diario di bordo – e, se lo fanno su nostra richiesta sono piuttosto seccati. Si vede che stanno facendo dei discorsi coi pesci e non tollerano le nostre interruzioni, oppure sognano una vita ideale migliore e pensano di viverla».
Il tramonto del 16 agosto li avrebbe lasciati a Venezia ma, per non scendervi con la notte, i sei preferirono attraccare a Pellestrina. La vicinanza del traguardo li rincuora: «ammiriamo le belle figliole – appuntano – e stasera assisteremo a “Lascia o Raddoppia”». Ciascuno almanacca il viaggio fin da quella partenza sull’Adda navigabile. Il mattino di venerdì 17, tra i canali lagunari, l’equipaggio chiede informazioni ad un vigile che monta in barca e si mette ai remi con loro. In comune li riceve il capo di gabinetto, cui consegnano una lettera per il sindaco assente firmata da quello trezzese: il cav. Umberto Villa.
In curia, per il patriarca veneziano (poi papa Giovanni XXIII), lasciano invece il messaggio affidato al raid da don Giuseppe Lazzari, prevosto di Trezzo. Infine ricevono il plauso della Bucintoro, la veneziana società di canottaggio che conferisce loro il distintivo d’onore. Nella città, di cui possono visitare gratis ogni monumento, i sei brianzoli dormono al convento degli Scalzi, vicino alla stazione, perché la Festa delle Luci ha stipato gli alberghi di turisti. E dopo un paio di giorni si apprestano a ripartire, verso un Adda navigabile anche per loro testimonianza. Stavolta però in treno.
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