Michel Foucault tra archeologia del sapere e genealogia del potere: le tortuose disobbedienze del pensiero alla linearità di una scrittura superstiziosa
L’archivista inaccerchiabile Michel Foucault sfilaccia la storia, prendendola dalle frange; procede per interstizi, si occupa della polvere rimasta negli angoli. Tratta il sesso, i manicomi e le carceri senza convergere a una trattazione sistematica. Per designare le sue indagini ricorre però al termine archeologia negli anni Sessanta e a quello di genealogia nel decennio successivo. Foucault fa archeologia, protestando la storica contingenza di ogni sapere “superstizioso”, che cada cioè nella dogmatica tentazione di pietrificare la verità. Chiunque sia soggetto di un sapere simile, gli è anche assoggettato, perché resta catturato in quella postura: la “sua” idea diventa quella cui appartiene. Sui corpi, si produce così l’esito di potere, denunciato dalla genealogia foucaultiana. Dal sapere accettato, il filosofo francese risale alle condizioni storiche di quella accettazione e ne disincanta la necessità. Ogni figliolanza può considerare retrospettivamente necessario il fecondo incontro dei propri genitori, che è invece contigente: occorso per gioco della sorte e del sangue. Allo stesso modo, se un sapere presume dati eterni, naturali e universali, la genealogia foucaultiana rimonta alle circostanze storiche di quella presunzione e ne disinnesca la “politica di verità”. Ma anche i due termini, archeologia e genealogia, hanno una paternità e il filosofo li prende da una cassetta degli attrezzi non sua.
Passato disobbediente
La storia non si snoda / come una catena / di anelli ininterrotti, avverte Eugenio Montale. Sarebbe ingenuo figurarsela come un destino lineare e necessario, voltadosi a cercarla da qui, in cima al presente. Le parole e i desideri hanno cambiato troppa rotta perché la storia ci venga restituita. Possiamo solo farne paziente interpretazione: antiquaria, critica o monumentale, distingue Friedrich Nietzsche contro ogni storicisimo nella seconda Considerazione Inattuale (1874). Ricordare disobbedisce al presente, insinuando un assetto altro da quello odierno; mette in racconto come le cose siano state diverse e possano perciò cambiare di nuovo. In alternativa ad una storiografia che ci immobilizzi all’ombra del passato, Nietzsche propone una narrazione deflagrante: la Genealogia della morale (1887). Da qui Foucault attinge il metodo anti-storicista della genealogia, in raddoppio a quello archeologico; curando tra l’altro in francese con Gilles Deleuze l’edizione completa delle opere nicciane. La genealogia in senso filosofico restituisce il fatto all’evento, segue cioè le tortuose intermittenze del passato senza incastrarlo in una versione rettilinea e definitiva, che giustifichi lo stato vigente delle cose. Piacerebbe anzi a Foucault che i suoi libri si auto-distruggessero dopo la lettura, come i messaggi delle spie: non gli preme l’esattezza storica ma gli effetti di realtà; vuole indurre cioè spostamenti e disincanti nei cittadini, perché da soggetti a un sapere dispositivo diventino soggetti di un sapere indisponibile, mai compiuto e sempre poco più in là del punto dove siamo giunti a pensarlo.
Archeologia kantiana
Alla tesi dottorale circa la storia della follia, Foucault ne affianca un’altra sull’antropologia kantiana. In riscontro a un pubblico appello, come fece già per Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? (1784), Immanuel Kant compila i Progressi della Metafisica (1791) su bando dell’Accademia reale delle scienze. L’opera si pone a un bivio, indicando due possibili trattazioni: quella didascalica e cronologica, che metta in rassegna il pensiero dei singoli filosofi; oppure un’archeologia trascendentale per intendere le condizioni di possibilità che ambientano e consentono quel pensare. Foucault frequenta entrambi i titoli kantiani (Risposta e Progressi) ma sul secondo sembra ricalcare la propria archeologia del sapere, che ricolloca nella contigenza la verità: asintotica e non dogmatica, se ogni tempo la dice ma nessuno l’ha mai detta.
Scrittura tentatrice
La radice greca di “archivio”, arché, oscilla tra due significati: origine e comando. Se l’arché è origine, l’archivio è il luogo dove si conserva il sapere primo, quello più antico. Se l’arché è comando, l’archivio è il luogo dove si esercita il primo potere, quello più alto. Ma sapere e potere sono omonimi e simultanei: ogni in-formazione che prendo dà infatti una forma a me. I trattati di pace dispongono spesso il destino degli archivi, dove il sapere è potente. Da ferrati e segreti, aprono alla consultazione specie dall’Ottocento. Il codice napoleonico inaugura quel secolo, accordando ai sudditi la nuova dignità di cittadini: anziché inoltrare supplica, per accedere alle carte, ciascuno può affermare ora il proprio diritto di accesso in lettere che chiudano magari con la formula salute e rispetto. Il filologo Paul Zumthor riapre il doppio significato di arché (sapienza e comando) nella differenza tra monumento e documento. Per lui, il documento sarebbe un sapere innocuo e obiettivo; solo il potere lo tramuta in monumento, adottandolo a scopi edificanti. Ma tutti i documenti sono monumentali perché non uno tra loro è innocente, scevro da intenzioni; avvertono gli Annalisti francesi e lo stesso Michel Foucault. Solo il gesto genealogico spezza la complicità tra sapere e potere.
La genealogia disturbante di Foucault non ci lascia dormire nella quieta superstizione che quanto è sia necessariamente: nega il detto innegabile, assegnandolo alla paternità storica del dire che lo ha pronunciato; confuta il fatto inconfutabile, risalendo alle condizioni del fare che lo ha prodotto. Questo disincanto interrompe l’incanto dei dispositivi, che ci assoggettano al sapere di cui ci pretendiamo soggetti. Ma il filosofo francese non sospende il pensiero dominante perché quello genealogico istauri un nuovo dominio. Ci premunisce piuttosto contro ogni scrittura tentatrice, che scriva perché qualcosa resti scritto: inscenando un sapere, la scrittura lascia infatti fuori scena le proprie coordinate, quali retincenze e ambizioni la muovono. Per Carlo Sini la superstizione della scrittura si consuma nel rischio che ogni dato scritto diventi irragionevole e assoluto, sciogliendosi dalle ragioni genetiche e materiali del proprio scrivere. In cerca di antenati, il genealogista famigliare interroga registri, catasti e censimenti: sebbene citino il nome dell’avo, quelle carte non ambiscono però a farne domestica memoria; sono piuttosto dispositivi che censiscono e censurano, computano e imputano ai fini del controllo morale ed erariale. Il sapere delle carte viene perciò trascritto dalla pratica che le ha prodotte a quella dell’interprete, che le ri-produce. La genealogia in senso proprio visita i documenti ma anche i documenti hanno una loro genealogia.
Nel segno della scrittura
In Italia, i filosofi Carlo Sini e Giorgio Agamben moltiplicano le inchieste genealogiche di gesto nicciano e foucaultiano. Agamben traccia vertiginosamente una genealogia teologica dell’economia e del governo occidentali. Sini restituisce invece la genealogia del pensiero logico alle sue soglie decisive: oralità, scrittura, alfabeto e mente logica. Come Jacques Derrida, Sini esplode la figura della scrittura all’ampiezza più pervasiva: anche il primo solco dell’agricoltura è già quello della scrittura; un sapere/potere catturante. Se rimuove la genealogia e le condizioni che lo istituiscono, il sapere intellettuale esorbita: si fa superstizioso e coloniale, quasi potesse conseguire il mondo e trascriverlo intero in un foglio-mondo peirciano. Anche la parola si volta a scegliere la propria genealogia, ponendo prima di sé il Verbo di Dio, onniscente e onnipotente, in cui sapienza e potenza coincidono nella creazione. Ma la parola umana non ha il voltaggio di quella divina: per quanto sappia dire-bene, non può bene-dire. Il sapere/potere dell’uomo non giudica e manda seconda ch’avvinghia né rinchiude il mondo in una formula alfanumerica. Solo l’errore è la forma mobile della sua verità: nessuna veduta esaurisce la visione che le suscita. L’unica filosofia possibile resta allora un’etica genealogica e auto-bio-grafica che parta alla volta del sapere, tralasciando ogni volta il saputo.
Gesti genealogici
Sotto l’irresistibile metafora della parola, immaginiamo che la genealogia sia il silenzio prima e dopo la nostra risonante esistenza. Leggiamo i nomi e le date sul marmo definitivo delle tombe, come se queste piccole formule rimediassero alla grande assenza degli avi. La genealogia famigliare è più modestamente una torsione, un esercizio di prospettiva: eleggiamo alcuni nati ante-noi, perché siano i nostri ante-nati; ma è la nostra nascita che li profila all’indietro come tali. L’indagine non risale mai alla prima sorgente delle stirpi, che convergono in noi come affluenti, né contende agli avi il loro segreto. Eppure, il gesto genealogico suscita un cambio intimo e posturale in chi lo compie. Sono stazione, non capolinea. Provengo da molti antenati e il mio destino non può compiersi nella solitudine: condivido le cose e i pensieri, perché si moltiplichino come il pane del miracolo. Io solo sono solo io. La purezza è una tara genetica, che isola il cognome fino all’endogamia e all’estinzione; anche la mia nascita fu inestimabile e impura. Sono la prua in fiamme della nave che affonda. Non devo seppellire ma spendere il grato tesoro dei giorni e delle notti, in cui succedo ai miei avi. Perché io sia uno in più, vengono meno loro. Appartengo a una terra ma è volgare credere che quella terra mi appartenga, perché i miei antenati affaticarono oceani, sentieri e conobbero l’altrove; l’immobilità del coltello nel pane non giova al pane né al coltello. Il genealogista definisce senza finire mai l’origine, come il navigante segue senza conseguire mai le stelle; entrambi tracciano così la rotta giusta per diventare ciò che sono.
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Per approfondire:
- Federico Leoni, Genealogia in Filosofia Teoretica – un’introduzione, Rocco Ronchi (a cura di), Utet, Novara 2009, cap. III, pp. 47-69;
- Enrico Redaelli, L’incanto del dispositivo, Ets, Pisa 2011, pp. 210-219;
- Carlo Sini, Opere, vol. III: La scrittura e i saperi, tomo I L’alfabeto e l’Occidente e tomo II Il foglio-mondo, a cura di Florinda Cambria, Jaka Book, Milano 2013-2016.
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