Omnis caro fenum e «come l’erba sono i giorni dell’uomo»: la poetica del fieno dalla falce mietitrice alla “cesoiata” del linguaggio
Omnis caro fenum, letteralmente «ogni carne è fieno» (gr. pasa sarx chòrtos). Così risuona, millenario, il versetto del profeta Isaia (40,6) fino alla più moderne traduzioni: «ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce». Cristo evoca questo luogo biblico nel Discorso della montagna; secondo gli evangelisti Matteo (6,30) e Luca (12,28), egli chiama infatti chòrtos (lat. fenum) l’erba del campo fiorita di gigli, «che oggi c’è e domani si getta». Nella prima lettera (1,24) anche l’apostolo Pietro recupera le parole di Isaia; e i Salmi moltiplicano poeticamente il termine fenum (gr. chòrtos) a ingiuria degli empi, che inaridiscano «come l’erba dei tetti» (128,6). L’occorrenza insiste specie tra i componimenti 105, 101 e 102, dove la resa italiana «come l’erba sono i giorni dell’uomo» allevia appena l’implacabile versetto 15, Homo: sicut fenum dies eius. Col sermo CXXIV (In Natale Domini, VIII) Sant’Agostino ravvisa nelle parole di Isaia, omnis caro fenum, la profezia avverata a Betlemme: Dio si incarna, viene cioè letteralmente messo nel fieno di una mangiatoia.
Fenum non travasa tuttavia l’intero senso del greco chòrtos (da cui hortus), che nomina la pochezza umana al cospetto della divina infinità. Senza alludere al cielo, il significato latino è carnoso: si esaurisce nel mondo, corradicale com’è di femina, fetus, fecundus e fenus (il frutto del denaro); discende dal verbo feo, più comunemente fio, affine al greco phyo (da cui physis, natura) nel senso di generare e produrre (Giovanni Battista Bolza, Vocabolario genetico-etimologico della lingua italiana, Vienna 1852).
Vanitas, Morte con falce messoria, incisione (Collezione privata)
L’omnis caro fenum e l’arte della falce
L’arte attribuisce la falce messoria (per la raccolta dei cereali) al greco Crono, che evirò secondo Esiodo il padre Urano (Teogonia, 154-182): la dea Afrodite (da aphrόs, schiuma) nacque dai suoi genitali, gettati in mare presso Cipro. I Romani riconoscono Crono in Saturno, che regge lo stesso falcetto per aver diffuso l’agricoltura tra gli uomini. L’iconografia della Morte eredita questa lama, benché preferisca la falce fienaia (per la fienagione) specie dopo la Peste nera (Archeologia Medievale – cultura materiale, insediamenti territorio, Firenze 1990, p. 397).
Trionfo della Morte (Cappella Bentivoglio, Basilica di San Giacomo Maggiore, Bologna)
Così armata, la Morte mietitrice dà figura e metodo alla biblica similitudine tra l’uomo e il fieno (omnis caro fenum). L’arte del XV secolo ambienta una complicità d’armi tra Eros e Thanatos, assegnando talora alla Morte l’arco e le frecce di Cupido: adottano questa variante opere letterarie come la Letilogia di Bettino Uliciani (1488) o pittoriche quali la Danza Macabra di Clusone (Bg) e il Trionfo della Morte di Palermo. Ma, nella basilica bolognese di San Giacomo Maggiore, la Cappella Bentivoglio assolve già il tema con la falce fienaia.
Giacomo Bolone de Buschis, Trionfo della Morte, Clusone, 1484-1485
Dire fenum-i sostituisce un non detto: la morte. L’uomo è, solo assumendo che dovrà non essere (cfr. Martin Heidegger, Essere e Tempo); si costruisce mentre crolla per riaversi ogni volta in quella perdita. Tertulliano considera la precarietà umana una miseria da togliere: demere fenum carnis immundae, scrive nel De resurrectione carnis (59), estirpare il fieno della carne colpevole. In singolare dittico, l’omofono latino fenus-oris significa l’opposto: richezza da restituire, profitto a interesse sul denaro prestato. Anche noi, del resto, riceviamo in prestito la moneta dei giorni e delle notti, come i servi nella parabola dei talenti (Matteo 25,14-30); un “tempo debito”. Fenum e fenus sono nominativi simili ma dicono diversamente l’esposizione dell’uomo alla morte come un meno o un più, difetto da redimere e tesoro da ridare. Allo stesso modo, l’arte barocca mette in colloquio opulenza e vanitas, segni opposti ma complici. Di essere, siamo dunque colpevoli o debitori?
Hieronymus Bosch, Il carro di Fieno, trittico, 1516 ca. (Prado, Madrid)
Fenum e fenus, essere e avere
Se fenum è la caducità, cui il peccato originale espone l’uomo, fenus è il suo costitutivo debito per questa vita pur caduca. Il fieno riguarda l’essere ma anche l’avere. Al sorgere del Cinquecento, Hieronymus Bosch esegue in trittico Il carro di Fieno (Prado, Madrid) interpretando l’assonanza tra i due termini. Lo sportello sinistro effigia la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre: sullo sfondo «frana lo sciame ronzante degli angeli ribelli, malefica entomologia» (Piero Bianconi, Bosch, Milano 1965). Dipinto sull’anta destra, l’inferno «incandescente di incendi» attende il carro di fieno, che percorre il pannello centrale. Per una manciata d’erba secca, l’umanità si dispone alla rissa e al pugnale: Cristo appare invano sul corteo, che i demòni conducono agli inferi. L’opera allude a tradizioni diverse: i Trionfi di gusto italiano (Mia Cinotti, L’opera completa di Bosch, Milano 1966), la Caccia selvaggia del Nord Europa e proverbi come «Il mondo è simile a un carro di fieno, ognuno ne arraffa quello che può».
Ai margini del carro, persino i monaci saziano inutilmente il sacco. L’uomo inautentico perde la misura della propria mortalità (fenum); avaro di sé, si mette nel sacco da solo. Non la rigidità ma il fluire di idee, beni, parole mette a frutto il primordiale debito per la vita (fenus). Nella parabola dei talenti, il padrone premia i servi che hanno posto in gioco la moneta prestata: si sono avventurati tra gli Altri; essere estranei era il punto di partenza migliore per conoscersi. Viene punito soltanto il servitore che rende l’esatta cifra ricevuta: l’esattezza, infatti, non è giustizia. Costui non fa danzare il proprio debito né divide il pane perché si moltiplichi come nel miracolo.
John Constable, Il carro da fieno, olio su tela, 1821 (National Gallery, Londra)
Quattro mercanti si passano di mano un prezioso tessuto dalla Cina: prima che il drappo si stracci, la Via della seta è tracciata. Tre sconosciuti spezzano il pane insieme: sulla tavola non restano che le briciole, quando si alzano compagni (cum-panis). Due amanti scambiano parole, finché non possono più chiamare indietro soltanto le proprie: cosa si siano detti è meno importante del fatto che si siano ascoltati; l’uno forse con-fuso dall’altro ma fuso-con lui. Un rito non svela mai il centro del sacro, che resta vuoto e interrogativo, ma instancabilmente gli disegna attorno il cerchio di una comunità. Quanto di noi spendiamo in queste circolazioni è prezioso (fenus) perché, se risparmiato, sarebbe senza valore (fenum); pura e impossibile possibilità, potenza inane. Solo cosa offriamo agli Altri è davvero nostro, in salvo dal tempo e dalla rapina, che non potranno più sottrarcelo. Il termine gift significa dono in Inglese e veleno in Tedesco: tutto ciò, che vivificherebbe la condivisione, riesce mortale se trattenuto soltanto per noi; la parabola (Luca 12,16-21) chiama così alla tomba l’avaro più ricco del cimitero.
Oltre il fieno, la paglia
Doctor angelicus, Tommaso d’Aquino lascia incompiuta la terza parte della sua monumentale Summa Theologiae (1265-1274). Celebrando nella cappella di San Nicola presso la chiesa napoletana dell’Ordine domenicano, l’autore sale a visioni tanto mistiche da lasciare in ombra la sua dottrina. Alle insistenze dell’amico confratello fra Reginaldo da Priverno, Tommaso ribatte: «Tutto quello che ho scritto mi sembra nient’altro che un po’ di paglia a paragone di quello che ho visto» (Raimondo Spiazzi, San Tommaso d’Aquino: biografia documentata, Bologna 1995, p. 311).
Nella risposta dell’Aquinate echeggiano almeno due memorie bibliche: Geremia (23,28) chiede Quid paleis ad triticum?; che cosa ha cioè in comune la paglia della parola umana, che può solo dire-bene, con il grano della parola divina, che sola può bene-dire? In 1 Corinzi (3,12) Paolo si rivolge invece ai ministri della fede, che operano con alterna dottrina: salda come oro e argento; o incerta come fieno e paglia, troppo deboli nel fuoco per resistere. Dopo aver percorso i labirinti della parola, Tommaso sceglie la verità con le labbra mute.
Lorenzo Lotto, Cristo-vite, 1524, Cappella Suardi, Trescore Balneario (Bg)
I tralci o le cesoie del linguaggio?
«Il peccato originale è l’atto di nascita della parola umana» dice Walter Benjamin (Sulla lingua in Angelus Novus. Saggi e frammenti); e proprio l’incarnazione del Cristo/Logos garantisce per Sant’Agostino la comprensibilità di ogni dire e l’adesione del significante al significato (De magistro). La rasoiata del linguaggio apre una distanza tra le parole e le cose, profilando all’indietro la presunzione di un’unità originaria. La venuta di Gesù sana questo taglio ma instaura un ordine diverso da quello iniziale: il Logos discende infatti nella carne, sancendo i significati nei loro significanti pronunciabili e pronunciati. Cristo assume così su di sé (latino tollere) la percorribilità stessa del dire sensato, la sua umana circolazione, il tu rivolto al Prossimo. Tra noi le parole non sono che tralci ma, senza, come potrebbero arrotondarsi l’uva e il vino della condivisione? In questa similitudine, Sant’Agostino porrebbe Cristo come fondamento e vite (cfr. Giovanni 15,5).
Miniatura dai Trionfi di Francesco Petrarca
Non lontano dalla vigna, Jaques Lacan propone invece il linguaggio nella figura del colpo di cesoia (coup de cisaille, cfr. Alex Pagliardini, Jaques Lacan e il trauma del linguaggio), assimilabile alla falce fienaia. «Ciò che manca non può essere contato» (Qoelet 1,15) ma può essere detto: la parola ci introduce al non-essere, cita chi è assente, afferma cosa ci viene negato; è la piccola porta, da cui l’uomo entra nella morte. Il linguaggio è il peccato originale, che ci condanna a una Morte (pre)detta: parlando, giochiamo con lei una partita, che ha le parole al posto degli scacchi. Sotto l’arco della falce, lo stesso dire che ci inizia alla Fine può infatti armarci contro di lei. Il culto degli antenati e i cicli eroici cantano la Fama brevemente vittoriosa sulla Morte nei Trionfi di Francesco Petrarca.
Albrecht Dürer, Il cavaliere, la morte e il diavolo, incisione, 1513
Come può il linguaggio essere insieme tralcio (Sant’Agostino) e cesoia (Lacan), comunione di parola e solitudine di morte? Ricorre qui la stessa gianicità di fenus e fenum, tesoro e miseria. In questa contraddizione la parola pulsa: dice, ridice, disdice senza aver mai detto definitivamente; è tralcio tagliato e cesoia che taglia. Proprio la vite, del resto, è la pianta che più chiede potatura per dare frutto. Se il linguaggio è solo tralci, il dire alligna e irrigidisce nel detto: cade nella parola dogmatica (cfr. Walter Benjamin). Se il linguaggio è solo cesoia, recide ogni speranza del dire, riducendolo al tacere scettico e nichilista. Affermare l’ultima parola o negare persino la prima sono lo stesso fuoco: il linguaggio, spento per eccesso o scarsità di legna.
Tra queste scottanti tentazioni, nichilismo e dogmatismo, il filosofo Edmund Husserl colloca la fenomenologia: salda come il cavaliere tra la morte e il diavolo nell’omonima incisione di Albrecht Dürer (Carlo Sini, Scrivere il fenomeno, Napoli 1999). La morte nichilista non dà nemmeno inizio alla parola; il diavolo dogmatico le mette fine. Tra i due silenzi s’inarca rischiosamente il linguaggio. Silvano Fausti ritrova questa parola in tutta la sua controversia: dote comune e comunicabile dell’umanità in ascolto o dose per avvelenare l’Altro anziché ascoltarlo. Il linguaggio aspira a un assetto trinitario: parla, ascolta, risponde. Creato al sesto giorno, l’uomo conduce la creazione al settimo solo se si comunica e compie in sé questa somiglianza con Dio (Silvano Fausti, Per una lettura laica della Bibbia, Bologna 2008).
Geffrey Whitney, A Choice of Emblemes, and other devises, Leyden 1586
La parola penultima
Chi dice non può restare estraneo, in salvo da ciò che ha detto. Se condivisa, è preziosa (fenus) persino la parola, che resta senza valore (fenum) quando non viene rivolta agli Altri. Affermarlo mi sottopone alla prova di questa stessa affermazione: anche il mio testo allora è vuoto, finché non diventi pre-testo per incontrare pienamente l’Altro. Ho messo questo articolo al centro, come la parola sull’agorà o il bottino che gli Achei si spartivano. Il testo è cresciuto insieme ai suoi generosi lettori (cfr. Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, 1,7,8): Massimo Angeleri, Maria Magda Bettini, Elena Carrera, d. Luigi Cortesi, p. Marco Rainini o.p., Enrico Redaelli, Renzo Talamona. Sant’Agostino coglie nel versetto «Andate e moltiplicatevi» (Genesi 1,28) l’umana potestà di «esprimere in molti modi» perché «così si popolano le acque del mare, che non acquistano moto se non dalla varietà delle interpretazioni» (Confessioni, XXIV). Persino gli errori di questo articolo sono forme mobili della verità ma nessuna interpretazione (fenum) vive tanto da occludere e mortificare il rilancio interpretativo (fenus). Altri ancora condivideranno l’argomento dell’omnis caro fenum, dandogli migliore sataccio: perciò, non conosco l’ultima parola di questo scrivere ma solo la penultima, gratitudine.
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In argomento, su questo sito:
- Arte dell’essenziale, mettere in scena “l’osceno”;
- Il segreto dell’origine e il dono dei giorni;
- Silenzio, il centro vuoto su cui ruota la parola;
- Foucault, la genealogia dei filosofi;
- In latino, motti e ironie: dire perché resti detto;
- Vita paziente e memorie future;
- Giovanni Brambilla, sotto il cielo interiore;
- Il numero e la parola incalcolabile.
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