Arte dell’essenziale: mettere in scena “l’osceno”

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Sette opere d’arte per una tavolozza poetica: il pane, l’ascolto, il vino, la grazia, l’amare, il tempo e la memoria.
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Vincent van Gogh, “La Méridienne” (1890), Musée d’Orsay
L’arte della terra

Terra e arte. Pedalando per i campi, faccio considerazioni da curato di campagna sul frumento segato; quasi che avere antenati secolarmente contadini bastasse a darmi la parola. Mi preoccupa lo strame. Resto convinto che, se ignoro il sapere primo dell’agricoltura, non posso dire adeguatamente di nient’altro. Il solco dell’aratro è già quello della scrittura, il pane è il primo alimento culturale.

Dal grano in poi, l’uomo mette al lavoro il sole e la luna, si allinea operosamente coi pianeti; inaugura la domesticazione del mondo. L’agricoltura stanzia l’uomo, gli semina in petto un senso di appartenenza che è già Patria, dove seppellire i proprio padri; ma gli offre anche l’immagine di una Natura ciclica e materna, sotto cui pensare la morte come una stagione di invernali pigrizie.

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Girolamo da Carpi, “Occasione e Rimpianto” (1541) – Gemäldegalerie, Dresda
L’arte dell’istante

L’Occasione sta in bilico sul globo, coglie per la cocca la freccia del kairos (il momento giusto). Offre i capelli sciolti sulla fronte ma, per chi tardi ad afferrarli, ha calvo il resto del cranio. Bastano pochi istanti perché il viso dell’alata Occasione diventi quello del Rimpianto, che vela a terra lo sguardo.

Eppure, nella geologia di ciascuno, l’assenza è decisiva quanto la presenza. Il vuoto di ciò che non è stato disegna la nostra architettura insieme alla pienezza di ciò che è: la somma dei nostri gesti contiene anche quelli sottratti e incompiuti. L’addio che sbatte tutte le porte vale quanto il primo incontro a vele spiegate; i libri interrotti valgono quanto quelli tenuti infinitamente sul comodino; la scelta di rinunciare, quando le armi ci cadono dalle mani, vale quanto le volte in cui gli altri ci portano sugli scudi.

Le nostre sconfitte sono vittoriose, consentono cambi di scenografia, riaprono il sipario all’azione. Dobbiamo molto di chi siamo proprio a chi non siamo stati.

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Caspar David Friedrich, “La croce della montagna” o pala di Tetschen (1808), Staatliche Kunstsammlungen Gemäldegalerie, Dresda
L’arte verticale

Quando salgo in alta montagna, ciò che resta in basso mi sembra bassezza: noie, ombre, fraintesi. Importa solo cosa posso portare con me. Il pane e qualcuno con cui dividerlo sul sentiero; il vino del traguardo, quando scopriamo d’essere noi la cima del monte e riguardiamo i passi che si sono spartiti la via. Ascendere in vetta è come riflettere sulla morte. Dalla quota di quel pensiero, l’altitudine dà proporzione alle cose quotidiane e orizzontali.

Ernst Platz (1867-1940), Memento Mori

Annibale, Petrarca, Cézanne, Nietzsche, Buzzati. In scarpe diverse, la neve senz’orma ci affratella a loro, intenti a un gesto perenne. Con le dita a visiera sopra lo sguardo ammiriamo dalla cima il nostro vasto non esserci. Tendiamo la prima mano in una posa che è già di preghiera, se la uniamo alla seconda. L’incenso stupito degli occhi sale a Dio, anche quando non lo cerca? La pianura concede troppo fiato alle parole.

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Agostino Arrivabene, “Sacrum facere” (2016) – Ringrazio il Maestro per la gentile concessione a riprodurre l’opera
L’arte della pioggia

La pioggia «ha un vago segreto di tenerezza», scrive Federico Garcìa Lorca: accade fuori dalla nostra volontà, come l’incendio o l’amore. Il sentimento ci sorprende con l’inattesa forza dei temporali. Per i nostri avi contadini, terra e bestiame erano cure ininterrotte e le stanze troppo popolate non concedevano intimità sotto la luna. La loro unica sosta romantica era forse la pioggia: «L’amore si sveglia nel grigio del suo ritmo / e il cielo interiore ha un trionfo di sangue», prosegue Lorca.

La pioggia è incendiaria e, come il sentimento, non obbedisce al nostro comando. Forse per questo un tempo si preferiva la costruzione «fare all’amore», come si fa «a pugni» o si parla «a braccio» senza avere signoria sulle forze e le parole che ci sentiamo in petto. La forma odierna, «fare l’amore», risolve invece la passione in un complemento oggetto a disposizione della nostra mano capricciosa. Conteniamo l’incendio perché diventi focolare ma il fuoco, come la pioggia o l’amore, non sta alla nostra obbedienza.

Edward Hopper, "Nighthawks" - I Nottambuli (1942), Art Institute of Chicago
Edward Hopper, “Nighthawks” – I Nottambuli (1942), Art Institute of Chicago
L’arte silenziosa

La generosità della conversazione. Gli Achei si dispongono in omerico cerchio attorno al bottino da spartire. Ugualmente, gli Ateniesi circondano sull’agorà il tesoro della polis: la parola democraticamente condivisa. A turno, ogni opinione ascolta silenziosamente le altre. L’ascolto scioglie le vele al dire, scampa la parola all’indegnità del brusio. Nella conversazione i parlanti fanno generosamente danzare le idee, finché ciascuno non può più chiamare indietro soltanto le proprie.

Alla rigidità dei polittici succedono, dal Quattrocento, le Sacre Conversazioni. In presenza della Vergine, i Santi parlano con le labbra mute. Mettono in scena quanto rimane solitamente fuori scena: il silenzio concavo dell’ascolto. È questo il significato ultimo della conversazione, spogliata dei suoi argomenti? L’urgenza tutta umana di gettare parole nel fuoco; dire alla pari e attendere che l’Altro risponda, mi regga lo specchio, mi chiami per nome.

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Alessandro Trotti Bentivoglio, “L’incile del naviglio Martesana” (1870 ca.), opera dispersa
L’arte fluente

Il fiume è la migliore metafora del tempo, che passa ma rimane. Nelle clessidre, etimologiche «ladre d’acqua», i Greci mettevano giusto lei. Per millenaria vocazione, l’Adda porta in braccio alla corrente le cose arrese e lievi, lasciando che affondino quelle pesanti; ci usa clemenza, quando prende la forma di tutte le mani senza farsi catturare mai da nessuna; leviga le azzurre tombe del fiume; porta a riva tesori e insieme miserie.

Nel riflesso dell’Adda, l’arco gettato per attraversarla si raddoppia in cerchio. Ma non è cosa da poco sposare il fiume con questo anello. L’Adda gocciola dai remi, tiene le dighe idroelettriche come pettini tra i capelli; e un pudore di nebbia le cade dalle curve fluenti. Amorosa squama, il fiume unisce le terre che divide; gioca, in nostalgiche foto, coi figli delle lavandaie. Quotidiano miracolo, l’Adda scorre fedele ai nostri piedi. Non cerca cittadini ma amanti.

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Gustave Doré, “Candida Rosa”, litografia dalla “Divina Commedia” illustrata (1861)
L’arte del ricordo

Al funerale di un amico penso l’al-di-là del muro, costruito perché tutti lo scavalchino. Sono imperfettamente cristiano ma cosa chiamerei «paradiso», quando la morte ritirasse la rete dei miei passi? Io solo sono solo io. Sarei in paradiso, se risorgessero con me coloro che mi sono cari: amori, amici, maestri. Finché mancassero, anche il paradiso sarebbe mancante. Basterà allora il mio affetto a convocarli? Ricordare chi amo compierà il miracolo del ricordo (re-cordis): consentirà loro un battito nuovo?

Se davvero il ricordo è un sintomo della resurrezione, rivivrà ogni creatura la cui assenza ne ferisca un’altra. I costruttori di sentimento popoleranno il paradiso: la loro nostalgia (nostos-algia, pianto del ritorno) richiamerà amorevolmente in vita gli Altri. Nella tomba resteranno dimenticati solo i cuori cotennosi, gli avari di sé. All’istante della resurrezione, costoro non saranno mai esistiti.

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