L’Adda femminile: il suo nome è quello di una dea, che i Celti veneravano in forma di donna; un fiume modificato a immagine e somiglianza delle esigenza umane.
Si sdraia fedele ai piedi di Trezzo l’Adda femminile che i Celti battezzano con la radice adu per indicare le acque discendenti a valle dalla confluenza dei torrenti Braulio e Viola; chiamando invece «Lexua» il tratto superiore. In Galles lo stesso idronimo battezza un fiume, venerato ugualmente in forma di antica dea.
L’invasore romano accoglie solo il nome di pianura, Adda, aggettivandolo al maschile per indicare l’intero corso. Dal latino l’italiano eredita la disposizione a considerare virilmente tutti i fiumi ma è come liquida dea che i Celti onorano l’Adda femminile. I dialetti rivieraschi la dicono ancora tale e da questa tradizione attinge il giovane Alessandro Manzoni che, in un idillio (1803), saluta l’Adda femminile intenta a «sveller fioretti per ornarsi il seno / e le trecce stillanti». Si adegua alla grammatica italiana solo nei «Promessi Sposi» dove, valicata da Renzo, l’Adda di Trezzo parla italiano con voce maschile.
Eppure è sempre il fiume sinuoso e gravido di laghi che, nella parrocchia trezzese, la «Regina Pacis» offre a Gesù sotto forma d’anfora; almeno secondo l’interpretazione del prevosto don Peppino Ghezzi. Negli incerti della navigazione, anche la frazione Concesa invocava la quattrocentesca «Madonna dell’Acqua» che i custodi carmelitani chiamano «del Barcaiolo»: come se, tra donne, Adda e Vergine s’intendessero.
Lungo il fiume frequenti devozioni mariane sembrano iscriversi su precedenti culti pagani dell’acqua al femminile: la Madonna della Rocchetta in località Porto d’Adda (MB), quella del Bosco a Imbersago, l’Addolorata alla Rocca di Aiuruno o sull’acqua in Brivio (LC). Il popolo riservava un timore con le mani giunte all’Adda irruente, che solo argini e dighe idroelettriche seppero finalmente disciplinare tra Otto e Novecento.
La corrente fluviale ha spesso variato calligrafia. Si chiamava Trizio il lago che, in epoca remota, defluì lasciando solo l’Adda femminile in fondo alle vertigini in ceppo che lo contenevano. A liberare la freccia del fiume fu così un arco lacustre. Ne sopravvive, cariata dalle cave, la parete della «Rundanéra» tra Trezzo e Cornate. Alla sua quota sorse alto l’ospizio benedettino di Portesana: un «portus sanus», appunto, rifugio salubre dagli acquitrini rimasti.
Ma il Catasto Teresiano restituisce altre settecentesche divergenze all’idrografia attuale. Dopo la «Canottieri Tritium», nell’Adda femminile sfociava l’oggi assetato canale che il dialetto chiama «cavum»: una roggia proveniente da Colnago, sfiorando le cascine Nuova e Rocca. Poco più a Nord, il fiume s’insinuava nell’argine fino all’oratorio silvestre di Sant’Agostino, votato da Michele Mazza dove la pestilenza lasciò i «mort dala cava». La pioggia insistente può riaprire i due antichi canali.
Prossima a Cascina Belvedere emergeva invece dall’acqua una «Isola e pascolo del Sig. Conte Cavenago ma a livello dalla Communità di Trezzo»: un affioramento cui i salici valsero il nome di «Saliggia» (poi «Saliccia»). Sul cadere dell’800 il candeggio Zaccaria, allora Medici, ci stendeva le tele da sbiancare. Furono le opere di sbarramento intraprese poco dopo a innalzare l’Adda trezzese, che inghiottì così l’isolotto di 44 pertiche. Ne scomparvero anzi altri tre, più piccoli: uno (la «Saliggetta») a ridosso del primo, dove ancora un salice sorge dal fiume; e i restanti all’ex-priorato di San Benedetto cui appartenevano. L’attività degli Zaccaria, originari di Valgreghentino, si ritirò così sulla riva milanese.
Antenata del mare, l’Adda femminile acquistava l’assetto odierno ma a viverla erano lavandaie, pescatori o i clienti del «Gila» (Ciocca) e del «Cantum» (Colombo), che noleggiavano 24 barche in legno. Il pescatico attorno alla centrale Taccani era versato dai Perego («d’Alèsi»), dai Baggioli quello tra il lavatoio e Belvedere. Qui abitavano i Comotti («Chinài») che avevano la concessione fino alla «Sorgente XXIV Maggio», «funtanìn» bergamasco e confine delle acque affittate ai Carozzi di San Benedetto da lì alla «Rundanéra». Proseguendo, l’Adda femminile spettava a Villa «Primìn». Chiunque poteva pescare con una canna: tre pezzi di bambù infilati e drizzati sul fuoco, la cui montatura si chiamava «sadagnìn». Ma solo queste famiglie gettavano le reti nelle correnti affidate loro. Lo facevano da battelli che Angelo Moioli «strafói» (balbuziente) fu il primo a realizzare in ferro.
Le truppe naziste affidarono alle squadre TODT di ampliare l’Alzaia trezzese. Quella bergamasca, cesellata appena nella sterpaglia, scandiva invece radure come «Cava di Spagnöo» (spagnoli), «Cava dal Bess» (serpente). E, prima del «funtanìn», il «Cepp Niculìn»: un enorme masso sul cui vicino fondale due piante abbattute lasciarono radicati i loro ceppi. Da oltre un secolo stanno sotto il fiume di cui segnarono l’argine bergamasco finché la diga non le sommerse.
Distano circa 3 m da quello attuale, un tempo echeggiante di filastrocche come: «Milanes, ces ces / i va in cesa des per des / ‘enian föra du per du / Milanes gratacü»; fastidiosi cioè come il cinorrodo irsuto di rosa canina che, mangiato a crudo, provoca i pruriti da cui il nome. Erano i bimbi di San Gervasio, cui ribattevano quelli trezzesi: «Bergamasch biôt e grass / quan ca ‘l pisa fa fracass / quan ca ‘l mena la pulenta / fa girà ‘l butum dal ventar». Più che parole, echi.
Per approfondire:
2 Responses
VALENTINA BINDA
grazie! un approfondimento prezioso
Cristian Bonomi
Grazie a te, Valentina! E alla prossima gita lungo il nostro fiume, che è poi quello cui apparteniamo.